Padovana, classe 1954, ha portato il Belpaese a diventare una potenza nello sport natatorio. Smette la carriera agonistica a soli 20 anni. Oggi giornalista, nel 1986 è stata inserita nella International Swimming Hall of Fame
Erano gli anni in cui parlare di sport in Italia voleva dire riferirsi unicamente al calcio: Italia, campione d’Europa nel 1968, vice campione del mondo a “Messico 1970”, e poi il campionato e le coppe internazionali. Nelle altre discipline la squadra azzurra rientrava nell’ampio novero delle compagini cosiddette “materasso o cuscinetto”, quelle che vengono ammesse alle gare per fare numero, ma che mai avrebbero la capacità di arrivare ad un alloro di rispetto, a parte qualche isolato exploit. Ma arriviamo al 1968, quando una esile ragazzina di 13 anni, un’eccezione rispetto alle nuotatrici ben piantate americane, australiane e tedesche dell’est, cominciò a inanellare vittorie su vittorie, arrivando a conquistare in assoluto le prime medaglie olimpiche nel nuoto, nell’edizione di “Monaco 1972”. Il suo nome? Novella Calligaris, padovana, classe 1954. Con lei iniziò una strada virtuosa per il nuoto italiano, che ha portato il Belpaese a diventare, di buon diritto, una delle potenze nello sport natatorio. Smette la carriera agonistica a soli 20 anni. Oggi giornalista, nel 1986 è stata inserita nella International Swimming Hall of Fame. Ci sarebbe stata Federica Pellegrini senza Novella Calligaris? È proprio lei a raccontarlo a 50&Più.
Novella, facciamo un percorso a ritroso, partiamo da oggi. Che cosa è diventato il nuoto anche grazie alla sua esperienza?
Diciamo che ho contribuito a cambiare una certa mentalità, grazie al fatto che ero una ragazza normale, così come oggi sono una “diversamente giovane” normale. Non avevo un fisico particolarmente prestante, ma attraverso l’allenamento muscolare e mentale sono riuscita ad ottenere ottimi risultati. Per fare un paragone col tennis, la Paolini di per sé non avrebbe una particolare prestanza, ma riesce lo stesso ad essere al top. Non è lo stereotipo della giocatrice di tennis, così come io non lo ero per il nuoto.
Quindi conta più l’allenamento della predisposizione fisica?
Beh, no, più che l’allenamento la differenza la fa la testa, la predisposizione mentale. Poi importante è la capacità degli allenatori di capire quali sono le caratteristiche e le qualità del singolo atleta e quindi applicare una comunicazione e dei programmi adeguati al soggetto che si ha davanti, che ne esaltino le doti, e non degli schemi genericamente preordinati. Ogni individuo è diverso. Nel caso del nuoto, ad esempio, ogni atleta ha una sua idrodinamicità che va capita bene per ottenere buoni risultati.
Nel suo caso un grande e storico allenatore nel nuoto è stato Bubi Dennerlein, scomparso di recente. È stato un innovatore?
Sì, lui è un esempio antesignano. È stato un tecnico che ha sempre adeguato l’atteggiamento psicologico e comunicativo, il tipo di allenamento al soggetto, non generalizzando. In quegli anni andava molto la ‘muscolarizzazione’, negli americani, nei russi, nei tedeschi dell’est. Lui aveva capito, invece, che il mio fisico era estremamente leggero e quindi ha adottato dei programmi di allenamento adatti al mio fisico e alla mia testa.
Che cosa ricorda dell’esperienza olimpica, situazione in cui ci si scontra con avversari di punta? Si riesce anche a diventare amici?
Quando affrontai la prima Olimpiade, giovanissima, ero incosciente di che cosa fosse, pensavo di essere in un grande parco giochi. Poi la seconda è stata vissuta con più consapevolezza e molte delle mie avversarie sono diventate mie amiche, soprattutto le tedesche dell’est, verso le quali ho una grande stima. Erano vittime non colpevoli di un sistema (doping di Stato, ndr) e chi richiede indietro le medaglie non ha un minimo di coscienza. Loro sono state utilizzate al servizio della ragion di Stato, con conseguenze anche molto gravi. La gara crea un antagonismo, ma anche delle forti complicità. Quando ho battuto il record del mondo degli 800 stile libero, la prima che venne a congratularsi con me fu l’americana Keena Rothammer, che deteneva il record, e mi disse: “Qualcuna doveva battermi e sono contenta che sia stata tu”.
Nello sport di oggi, sempre più spettacolarizzato, ci sono queste emozioni?
Sì, lo spirito dell’atletismo è ancora questo. È lo spirito di chi veste la maglia azzurra. Io mi onoro di essere presidente dell’Associazione Nazionale Olimpici Azzurri, con la quale cerchiamo di trasmettere ai giovani questo messaggio. La rete dello sport porta con sé valori che rimangono dentro per sempre e per questo è il più grande network valoriale al mondo.
Possiamo dire che il valore del rispetto deve essere e rimanere alla base di ogni sport?
Direi di sì, già la tregua olimpica porta con sé questo valore fondamentale: non può esserci competizione agonistica se non c’è pace. L’attività agonistica va oltre tutte le logiche, compresa quella politica, ma purtroppo oggi proprio la politica ha attenuato questa funzione importantissima. Pensate che la Russia ha invaso l’Ucraina nel febbraio 2022, proprio nel giorno dell’inaugurazione delle Olimpiadi invernali. Lo sport è rispetto, a livello interpersonale e a livello globale.
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