L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza: «Noi adulti dobbiamo sviluppare consapevolezza disintossicarci, ascoltare i nostri figli e farci guidare da loro in questo mondo»
Lo smartphone, o meglio il suo uso sregolato e improprio, nuoce alla salute e soprattutto alla vita relazionale. Da più parti si levano le voci di chi invoca una regolamentazione per quanto riguarda i bambini e i ragazzi, con limiti di accesso in base all’età: a partire dal pedagogista Daniele Novara e dallo psicoterapeuta Alberto Pellai, che tempo fa hanno lanciato una petizione proprio su questo tema, che ha riscosso un grande consenso, fino alle iniziative che, in Italia e all’estero, si propongono di regolamentare l’uso dello smartphone in ambito scolastico. Molto meno si pensa, invece, di porre limiti, o almeno regole di buon senso, all’uso dello smartphone da parte degli adulti.
Ne parla con una certa preoccupazione Marina Terragni, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, dopo aver letto lo studio Hot stuff: Behavioural and affective thermal responses to digital and non-digital disruptions during early mother-infant interaction, frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia e l’Istituto Neurologico Mondino. L’indagine, recentemente pubblicata sulla rivista Biological Psychology, affronta il tema, tanto delicato quanto poco trattato, dell’impatto che può avere l’uso dello smartphone sulle prime interazioni tra madre e neonato e quindi sullo sviluppo del legame emotivo e affettivo.
Come spiega Sarah Nazzari, prima autrice dello studio, emerge che «anche brevi interruzioni dell’interazione possono influenzare la qualità degli scambi affettivi tra genitore e bambino».
Dottoressa Terragni, cosa l’ha colpita di questa indagine, tanto da decidere di rilanciarla?
Lo studio mette in luce un fenomeno che è già da tempo sotto i nostri occhi e che mi preoccupa molto: vediamo ogni giorno carrozzine e passeggini spinti da genitori che guardano lo schermo del telefono, o assorti nei loro telefoni sulle panchine dei parchi, mentre i figli giocano con scivoli e altalene. Più raramente, per fortuna, ma capita perfino di vedere mamme che allattano, mentre sul cellulare tengono d’occhio i social o addirittura vedono un video. Basterebbe il buon senso per capire quanto questo possa far male alla relazione genitore-figlio, ma ora abbiamo anche un’indagine, che a questa sensazione aggiunge consistenza scientifica, analizzando l’impatto che questo ha sullo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino. Altri studiosi in passato ci hanno detto chiaramente che i bambini molto piccoli hanno un vitale bisogno di relazione e interazione, tanto che i piccoli cresciuti in contesti istituzionali e non adeguatamente stimolati dal punto di vista relazionale sviluppano problematiche cognitive, emotive e del linguaggio. Ora rischiamo di creare, nelle nostre case, le stesse condizioni di deprivazione relazionale ed emotiva.
Si parla tanto di come educare i bambini e i ragazzi a un uso corretto dello smartphone. Bisognerebbe quindi educare anche i genitori?
Innanzitutto i genitori, sì, perché sono i primi riferimenti educativi nonché l’esempio che i ragazzi hanno sotto gli occhi. Non si può pensare che siano lo stato o la scuola a educare i giovani a un uso consapevole di questi strumenti: serve uno sforzo collettivo, che gli stessi ragazzi ci chiedono.
Cosa chiedono?
Chiedono spazi protetti, luoghi di disconnessione, in cui non rischino di essere giudicati per ciò che dicono o che sembrano. Mi riferisco in particolare alla cosiddetta Generazione Z: coloro che hanno superato i 20 anni e sono i più colpiti dalla rivoluzione digitale ci mettono in guardia. Proprio loro, se interpellati sul tema, tante volte ci dicono: “Stavamo meglio prima, quando i social non c’erano e non eravamo sempre collegati”. E assicurano che non daranno lo smartphone in mano ai loro figli troppo presto, evidentemente consapevoli delle criticità che un uso precoce o improprio può avere sullo sviluppo. Questo è molto interessante, perché significa che stanno sviluppando anticorpi, forme di difesa e una consapevolezza che forse a noi manca. Per questo dobbiamo ascoltarli, quando ci chiedono spazi sicuri, cioè spazi di relazione reale, fisica, in cui non acquisiscano per sempre un’identità ‘social’ che non corrisponde a ciò che sono davvero né a ciò che vogliono essere.
Cosa dobbiamo fare, quindi, noi adulti?
Innanzitutto, sviluppare anche noi consapevolezza: chiederci con molta onestà se e quanto siamo dipendenti dallo smartphone e perché lo siamo diventati, cosa stiamo cercando. In secondo luogo, dobbiamo fare uno sforzo per disintossicarci e soprattutto disintossicare alcuni momenti e passaggi relazionali vitali. In generale, noi adulti dobbiamo ascoltare i nostri figli e farci guidare da loro in questo mondo, che a loro appartiene: come dice Jonathan Haidt, autore di La generazione ansiosa, loro sono cresciuti su Marte, mentre noi adulti possiamo andare a farci un giro per provare a capire com’è, ma non potremo mai comprendere fino in fondo, perché non è il nostro ‘pianeta’. Solo loro, che ci sono nati, possono guidare i nostri passi: e proprio loro ci dicono di stare attenti, di difenderci da quella dipendenza che stiamo sviluppando e che rischia di danneggiare noi, loro e soprattutto il nostro legame con loro. Rimettiamo al centro il superiore interesse dei bambini e dei ragazzi e, insieme a loro, ritroveremo la strada che altrimenti rischiamo di smarrire.
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