Di origini sarde e milanese d’adozione, l’artista lascia il lavoro da manager per diventare rigattiere ambulante. «Denuncio l’inquinamento a modo mio. Attualmente sto lavorando con i jeans, ognuno di noi ne ha molti nell’armadio senza pensare che per ciascuno sono stati consumati 10mila litri d’acqua»
Fra le sue opere ci sono riproduzioni di quadri iconici, da La grande onda di Kanagawa di Hokusai alla Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, passando per la Medusa di Caravaggio e la Marilyn Monroe di Warhol, e tante altre composizioni originali, in una sorta di mosaico moderno che bisogna osservare con attenzione per cogliere ogni dettaglio.
«Sin da piccola ho sempre dipinto, era la mia vocazione – racconta a 50&Più Annarita Serra -, ho frequentato il liceo artistico di Brera e poi mi sono iscritta ad Architettura; per problemi familiari ho cominciato anche a lavorare, pensando di riuscire a conciliare questo nuovo impegno con lo studio, ma si è rivelato molto complicato e mi sono concentrata sul lavoro».
Inizia a lavorare da giovanissima e intraprende una carriera importante nel settore marketing: ci racconta questa esperienza?
Ho lavorato in una multinazionale americana e ho fatto carriera perché avevo una grande voglia di riscatto. Sin da piccola, quando a 8 anni ero arrivata a Milano dalla Sardegna con la famiglia, avevo percepito un certo razzismo nei miei confronti, come per tutte le persone del Sud, lo stesso che oggi c’è nei confronti degli stranieri. Per questo sentivo che dovevo farcela, era la mia rivalsa. In questa azienda vengo formata con un training importante, che include sei mesi di corso di marketing all’Università Bocconi, altri sei a Roma come venditore e un anno in Inghilterra come assistant manager. Insomma un’occasione unica, ma non era la mia vita.
Cosa succede in Inghilterra?
Ero nello Yorkshire e ho deciso di sfruttare il mio tempo libero per fare un corso dopo il lavoro: ne ho trovato uno per antiquari e ho iniziato a frequentarlo, appassionandomi agli oggetti antichi e cominciando anche a recarmi nei mercatini alla ricerca di pezzi interessanti. Quando sono tornata a Milano li ho portati con me, e ho iniziato a pensare a come applicare le mie conoscenze di marketing a questo nuovo settore. Decido di acquistare una casa e, per questo, mi ritrovo in Comune dove apprendo che c’è una licenza disponibile come rigattiere ambulante. Non è proprio quella da antiquario che mi sarebbe piaciuta ma ci si avvicina. E allora decido di fare il grande salto.
Lascia il marketing per il lavoro da rigattiere?
Sì, mi sono licenziata senza pensarci due volte: ero costata tanto all’azienda, ma continuavo a non sentirla come la mia vita. Ho presentato le dimissioni al direttore generale, che credeva avessi avuto un’offerta dalla concorrenza, ma quando gli ho spiegato cosa avrei fatto mi ha detto: “Beata te!”, aggiungendo poi che se le cose non fossero andate bene, sarei potuta tornare. Ho fatto questo lavoro per due anni e nel mentre ho ricominciato a dipingere.
Come avviene il passaggio dalla pittura al ‘mosaico’ con i materiali di scarto?
Arrivo in Nuova Zelanda, dove vado a trovare mia sorella; quando vedo il mare mi ricordo all’improvviso delle mie origini sarde e penso che non sono mai tornata nella mia terra. Al rientro in Italia vado in Sardegna, d’inverno. In spiaggia trovo un pezzo di plastica levigato, bellissimo e inquietante allo stesso tempo. Poi comincio a vederne tanti altri portati dalle mareggiate e comincio a raccoglierli con l’intenzione di ripulire il mare. Riempio interi sacchi di plastica e decido di portarli a Milano, ma non so ancora cosa ci farò, finché un giorno li butto per terra e comincio a comporre un primo quadretto. All’epoca, 25 anni fa, c’era una galleria francese che cercava qualcosa di diverso e decido di inviare questa mia opera. È piaciuta, ne ho inviate altre e sono state tutte vendute. Da lì ho cominciato ad avere fiducia in ciò che stavo facendo.
Da allora non ha più smesso: come si è evoluta la sua arte?
Volevo fare l’artista e volevo salvare il mare, una cosa mi ha aiutato nell’altra e viceversa. Ma dopo 25 anni ho deciso di cambiare materiali. Posso dire di aver completato il lavoro sulla plastica, che comunque non va demonizzata in quanto tale, ma per l’abuso che ne è stato fatto. In alcuni ambiti come quello sanitario ci ha salvato la vita, pensiamo alle siringhe. Oggi continuo il mio lavoro di denuncia dell’inquinamento in altre forme. Attualmente sto lavorando con i jeans, che ormai si trovano in vendita persino a 10 euro; ognuno di noi ne ha molti nell’armadio senza pensare che per ognuno sono stati consumati 10mila litri d’acqua, e che tutti i coloranti che vengono usati per tingerli nei paesi in via di sviluppo finiscono nei fiumi e poi nel mare. Per non parlare delle microfibre, che sono arrivate a inquinare più della plastica.
Cosa direbbe a chi cerca la propria strada e vuole affacciarsi al mondo dell’arte?
Vorrei infondere un messaggio di fiducia nei giovani, perché non è vero che oggi ci sono meno opportunità, sono solo diverse e bisogna imparare a coglierle. E bisogna imparare a cercare la propria strada sin da subito. Io l’ho fatto più tardi, ma riuscire a fare arte e a parlarne mi fa dire di avercela fatta, perché quando la mattina mi sveglio non vedo l’ora di andare a fare quello che mi piace. E questo non ha prezzo.
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