La ‘cultura del disgelo’, le espulsioni per atteggiamenti antisemiti, la censura e le dimissioni. Viaggio dietro le quinte del Festival tra politica e trasgressione
Anno 1958. A due anni dallo storico XX congresso del Pcus, dove Kruscev denuncia per la prima volta i crimini di Stalin, il festival si allinea alla cultura cosiddetta del disgelo, ovvero l’apertura dell’Unione Sovietica all’Occidente. Nonostante in concorso figurino autori del calibro di Ingmar Bergman e Pietro Germi, la Palma d’oro viene assegnata al film Quando volano le cicogne, di Mikhail Kalatozov: un premio chiaramente politico, indirizzato al nuovo corso dell’Unione Sovietica appena uscita dall’isolamento del “socialismo in un solo paese”, la parola d’ordine sotto la dittatura stalinista. Una curiosità: il titolo vero del film era in realtà Quando volano le gru, ma quando la distribuzione italiana si accinse alla traduzione dei dialoghi, invece di attingere direttamente alla versione originale russa, si servì della traduzione francese. In Francia, la parola ‘gru’ viene ritenuta inadatta, perché nello slang parigino essa significa ‘donna di malaffare’, ‘prostituta’, tanto che il curatore francese provvide alla sostituzione con il più innocuo ‘cicogne’. Il traduttore italiano, ignaro, senza controllare la versione russa, agisce sulle cicogne invece che le gru. E così, in Occidente, senza colpo ferire, il film diventa, e per sempre sarà, Quando volano le cicogne. Disgelo anche questo?
Anno 1960. In concorso due grandi italiani, Federico Fellini con La dolce vita, e Michelangelo Antonioni, con L’avventura. Le proiezioni di entrambi i film vanno male, tra fischi e disapprovazioni. Monica Vitti racconta che i ‘buu’ iniziarono persino ai titoli di testa. Roberto Rossellini, che non ama il film di Fellini, si spende invece per quello di Antonioni. Scrive una lettera aperta di strenua difesa de L’avventura, e la fa firmare a tutte le personalità presenti al festival – scrittori, registi, giornalisti- e poi affigge il documento ovunque negli spazi del festival, tanto che è impossibile non vederlo. L’esito sarà il Gran premio della giuria per Antonioni, e addirittura la Palma d’oro per La dolce vita, grazie a Georges Simenon, il ‘papà’ di Maigret, presidente della giuria, il quale incurante dei fischi, fiero, legge il verdetto in una sala recalcitrante e gremita.
Anno 1962. Fuori concorso, viene invitato il film a episodi Boccaccio ’70, diretto da Mario Monicelli, Luchino Visconti, Federico Fellini, Vittorio De Sica. È un evento straordinario, quattro grandi maestri riuniti in un solo film. Uno però è forse un po’ meno illustre degli altri, Mario Monicelli, per il quale il festival costituisce una imprevista quanto spiacevole avventura, che lui stesso racconta così: «Nel ’62 a Cannes scoppiò un putiferio. Il film doveva aprire il festival in una serata di gala. Non si capì bene il perché, ma il produttore Carlo Ponti decise di tagliare il mio episodio, dal titolo evocativo Renzo e Luciana, la storia di due giovani operai a Milano, alle prese coi problemi del matrimonio. Giunto il mio avvocato da Roma per ricorrere alla magistratura francese, a quel punto mi convoca l’avvocato di Ponti, il quale mi offre ottanta milioni di lire per rinunciare al mio episodio. Io non accetto e vado avanti. Cosa incredibile, la magistratura francese, evidentemente corrotta, consente la proiezione del film privo del mio episodio. Mario Soldati, in giuria, per solidarietà, si dimette. L’esito è che l’episodio mio, Renzo e Luciana, compare ormai solo nell’edizione italiana del film: nelle proiezioni all’estero è rimasto invisibile».
Anno 1973. Scandalo al festival. La proiezione de La grande abbuffata di Marco Ferreri, scatena polemiche, grida e una valanga di fischi. La storia di quattro personaggi che si chiudono in una villa e si lasciano morire rimpinzandosi di ogni genere di cibo, prestazioni sessuali con prostitute incluse, è una bomba, come sovente capita in simili casi, che decreta l’immediato successo di un film non destinato al grande pubblico. È ancora fresco il caso di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, mentre di lì a poco scoppierà quello del Salò di Pasolini. Se il cinema, soprattutto quello italiano, si segnala per una maggiore tendenza alla trasgressione, allora il Festival di Cannes si presta sempre volentieri a ospitare simili casi.
Anno 2011. Il regista danese Lars Von Trier, in concorso con il film Melancholia, durante la conferenza stampa di presentazione si lascia andare a frasi ambigue su Hitler e il nazismo, dichiarando di comprendere alcune idee del dittatore, apprezzando inoltre l’opera del nazi-architetto Albert Speer, fino a spendere indispettite parole su una collega regista che fecero persino pensare a un atteggiamento antisemita del cineasta danese. Lo scandalo fu enorme tanto che, nonostante le scuse, Lars Von Trier – dichiarato persona non grata – fu espulso dal festival. Il film rimase però in concorso, tanto che la protagonista, l’americana Kirsten Dunst, fu persino insignita del premio per la migliore interpretazione femminile. Ad ambiguità, giustamente, si risponde sempre con ambiguità.
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