Nel nuovo romanzo edito da Feltrinelli, lo scrittore unisce la vocazione letteraria a quella giornalistica. Osserva il flusso della vita in un giorno qualunque, strizzando l’occhio a Joyce, e incontra storie che superano l’istante
Con l’ultimo tassello di una lunga carriera da romanziere Paolo Di Stefano, inviato speciale e già responsabile delle pagine culturali del Corriere della Sera, mette in scena il suo personale Bloomsday. Un giorno per racchiudere una vita, più vite, che si confondono nella moltitudine vorticosa del mondo e insieme si rivelano, come nell’Ulisse di Joyce, attraverso eventi minimi e decisivi. In Una giornata meravigliosa, edito da Feltrinelli, Di Stefano costruisce il suo giorno del giudizio, non ultimo né apocalittico, ma immortalato dalla narrazione. Lo fa in modo originale, con leggerezza calviniana, planando dall’alto sulla matassa delle vite che brulicano dentro un giorno qualunque e dipanandola attraverso una manciata di storie che appassionano, spiegano o solo divertono. Che, insomma, superano l’istante.
«Il libro è nato da una condizione di vuoto e da un conseguente sbalordimento», racconta Di Stefano. «Una mattina mi sono svegliato leggendo la rassegna stampa del giornalista Giorgio Dell’Arti sui fatti del giorno precedente. Il giorno prima non avevo seguito nulla, né notizie volanti digitali né telegiornali. È come se avessi riscoperto, daccapo e con totale stupore, il mondo caotico e incomprensibile, assurdo e tragicomico in cui viviamo. Mi sono detto subito che sarebbe stata una bella sfida cercare di tradurre in romanzo quella vertigine». Tra le virtù del libro c’è in effetti la capacità di rendere il groviglio, la valanga di fatti apparentemente insignificanti e dunque spesso invisibili che riempiono una giornata qualunque. «La giornata – spiega l’autore – è la vera protagonista del romanzo: una giornata d’oggi, con le sue storie che si incrociano, si alternano, si sovrappongono. In questa giornata c’è una giovane donna che teme di essere uccisa dall’ex marito, c’è un uomo che vince al Superenalotto e si mette in fuga dalla famiglia, c’è una coppia di anziani che ragiona su quel che accade nel mondo, c’è Putin che annuncia la bomba atomica, ci sono un pittore e un giornalista che parlano del senso dell’arte, c’è un ragazzo che scopre le gioie del sesso, un venditore di giornali senegalese che trova un lavoro, un padre che stermina la famiglia e una ragazza che viene dimessa dall’ospedale, c’è lo slogan pubblicitario di un supermercato che imperversa e fa discutere e tanto altro ancora. Ho preso sul serio una frase di Charles Bukowski che dice: “La gente è il più bello spettacolo del mondo. E non si paga nemmeno il biglietto”. È una specie di assist a ogni scrittore: l’invito a guardare fuori di sé, a saper ascoltare e raccontare le voci del mondo».
C’è tanta letteratura in questo libro: consapevolezza letteraria, che conferisce densità alla narrazione, e maestria letteraria, che consente all’autore di plasmare uno stile solo apparentemente semplice. Di Stefano traccia una mappa di ascendenze ampia ma precisa: «Oltre all’ovvio riferimento a Joyce, ho fatto i conti con altri scrittori che si sono cimentati col racconto di una sola giornata, come Rick Moody in Rosso americano. Sono tornato ai maestri che sanno raccontare il mondo nella sua molteplicità, come Faulkner, e sviscerare la “commedia umana” nel suo farsi quotidiano (Balzac su tutti). Ho guardato a Gadda per la sua capacità di mescolare il linguaggio, a Pirandello che sa cogliere le svolte arcane e assurde delle vite individuali, a un pugno di scrittrici (Annie Ernaux, Yasmina Reza, Rachel Cusk) che di queste vite sanno rappresentare la normalità e al tempo stesso il rapporto con la Grande Storia, a un pugno di poeti che amo, come il Montale del celebre verso “E io non so chi va e chi resta”, citato esplicitamente nel libro». A proposito di citazioni, una frase di Pessoa, “Dalla vita non voglio altro che starla a guardare”, è posta in esergo del romanzo e sembra riassumere l’atteggiamento della voce narrante, che ha il compito di tenere insieme la complessa struttura del racconto. «Il narratore – chiarisce Di Stefano – è una specie di occhio esterno, non del tutto onnisciente, stupefatto, che permette di guardare le cose da lontano e fa capire come, nonostante la pochezza e l’inanità di tutte le piccole vicende umane, per chi ne è fuori (o quasi fuori) la nostalgia per la vita sia fortissima. La sua è una visione straniata e stranita della realtà». A trasmettere lo straniamento, e lo sbalordimento, del narratore è uno stile chiaro, secco, ironico e accuratamente ritmato. Come sottolinea l’autore, «la questione del ritmo è fondamentale per un libro del genere. Si trattava di lavorare sulla rapidità degli eventi, sul frammento dell’istante e, al tempo stesso, sulla continuità delle storie particolari. Il ritmo del romanzo cerca di mimare la nostra quotidianità frammentata, ma non al punto da non capirci più niente: è una sorta di mozzafiato continuo, in cui si inserisce un “controcanto” e un “controtempo”, un dialogo “fermo” tra un giornalista e un pittore, che permette in qualche modo di tirare il fiato». Senza che intervenga alcun portento, il guazzabuglio di eventi minimi e decisivi che l’occhio del narratore e lo stile dell’autore spostano sopra la soglia dell’attenzione diventa in qualche modo “meraviglioso”, come il romanzo annuncia fin dal titolo e svela appieno solo dopo l’ultima pagina. Di Stefano invita a una riflessione sottile: «La meraviglia del titolo sta nell’incredibile pluralità delle storie e delle coincidenze che si concentrano in poche ore della nostra esistenza. Sta, soprattutto, nella scoperta di queste storie, di queste coincidenze, delle quali restiamo perlopiù all’oscuro».
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