A cinquant’anni dalla morte, le intuizioni dello scrittore restano illuminanti. Nel 1959 percorse in macchina la costa italiana per descrivere la “mutazione genetica” del Paese
È un giorno di inizio estate del 1959 quando Pier Paolo Pasolini si accinge a compiere un’impresa titanica: percorrere da solo, in macchina, i duemila chilometri della costa italiana, da Ventimiglia giù fino alla punta più estrema della Sicilia e poi su risalendo fino a Trieste. Il pretesto è un reportage per la rivista Successo, l’idea è quella di mettere la sensibilità umana dello scrittore e il fosforo delle sue intuizioni letterarie al servizio di un itinerario metà turistico e metà spirituale fra le meraviglie costiere del Belpaese.
Pasolini si lancia all’avventura: macina chilometri a bordo della sua Fiat Millecento e fissa su carta le scene del suo primo lungometraggio. Di ogni luogo, di ogni momento cattura l’essenza nell’andare; poi inaspettatamente rimane invischiato in una fascinazione e si dilunga in pagine di descrizione stupefatta, analisi sottile, racconto letterario. I luoghi, com’è ovvio, la fanno da padroni. Genova è “un guazzabuglio supremo”: una frana di palazzi immersa in una luce da temporale. Livorno ha una “spensieratezza americanizzante”. Napoli è “una carambola”, percorsa e ammirata dal tramonto all’alba, sotto un cielo rosso che non riesce più “a nascondere il Paradiso”. Reggio Calabria, Catania, Siracusa “sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto”, Taranto “brilla su due mari come un gigantesco diamante in frantumi”, Cattolica sta tutta nel suo “spiaggione stratificato e ipertrofico”. Venezia è contesa tra le brame degli aristocratici e delle masse, Trieste è il simbolo stesso della fine del viaggio: si spegne “contro tristi colline fumose, contro la cortina bianca del cielo”.
Agli insediamenti dell’uomo si contrappongono i segni della natura: coste a strapiombo, notti alte, soli che infuriano, distese di macchia mediterranea. Le spiaggette “borghesi” si susseguono, presidi onnipresenti di un agio modesto, un ordine stantio, un perbenismo mediocre: a volte si accendono di vampate popolari, altre decadono a feudi di bagnanti e industriali, rifugi di miliardari pasciuti, covi inaccessibili di solitari, stravaganti, misantropi, sfioriti satrapi. Lo “spettacolo del brulichio infinito” nei lidi, sui lungomari, negli stabilimenti balneari ritrae plasticamente l’irruzione della massa, intesa come entità dominata da un impulso edonistico e conformistico, “il fiume variopinto della vita congestionata dalla voglia di essere, nel senso più immediato”. È l’inizio di quella mutazione genetica del costume italiano che Pasolini denuncerà negli anni Settanta.
Nel 1959, invece, la scena è diversa: i luoghi, come uno specchio dello spirito, restano ancora intatti nella loro essenza. L’artista li coglie con poche, felici pennellate. Nelle borgate di Napoli, “sulle quinte sconfinate di casacce arancioni, marrone, terree, gravano odori incredibili: paglia macerata e liquerizia, scoli e agrumi, odori sopravviventi di una civiltà scomparsa, per noi, e ancora così assoluta per chi ci vive”. A Capri, “il buco della Grotta Azzurra è insieme una delusione e una scoperta: niente è mai bello come lo si aspetta, e tutto è più bello di quello che si aspetta. Si ha l’impressione di galleggiare su una lastra di luce, più alta del livello del mare esterno, e illuminata dal di sotto da fari di un chiarore duro, glauco, di mercurio”. La costa di Maratea è “un enorme scoscendimento, tagliato da biechi torrenti, grigio di roccia, tempestato di ciuffi di un verde tutto uguale, che precipita a picco sul mare. Lo schema è quello amalfitano, ma è riempito da un concreto inferno, ossessivo, e il risultato è stupendo”. Sull’isolotto di Porto Palo, in Sicilia, Pasolini fa il bagno “nella più povera e lontana spiaggia d’Italia”; ad Ancona, dall’alto del cimitero ebraico, guarda la spiaggia di notte, in fondo a un burrone, “dove ferme, lontane, nemiche, tremano le luci del porto e della città, finalmente, come forse vorrebbe, senza vita”.
Su tutto trionfa l’impulso dello scrittore a cercare la vita nella sua luce più attuale: la vita pura e assoluta; e l’impronta della “miseria”, dell’umanità più scabra e verace. La ninfetta che si esibisce sul molo di Lerici: “calda, popolana, innocente e già perfida, già conscia non del bene ma del male che c’è nei suoi seni appena spuntati”. Gli operai che a Ischia “lavorano come testuggini nere sotto il sole che ancora perdona”. Le ragazze – “femmine piccoline, e nere, e già un po’ gonfie di anche” – che prendono il bagno sul lido di Taranto, i ragazzi – “stretti di anca, grandi di occhio, lunghi di naso” – che accorrono intorno, si sporgono, osservano sospinti da “un’elica che gli gira dentro: l’elica del sesso, della curiosità, della voglia di vivere”. E ancora, a Cattolica, il vitellone – “schiena michelangiolesca, profilo bruno sotto i capelli corti, due braccia tutto muscolo” – che tiene nascosta sotto i pettorali, “come una lumachina”, una tedesca chiara.
La lunga strada di sabbia, il reportage riproposto dagli editori Contrasto e Guanda, è un piccolo gioiello. L’ultimo “taccuino del Grand Tour”, in cui l’autore fissa la chimera di un’Italia non più contadina o “marinaia”, non più arcaica, ma non ancora industriale, moderna. Si va molto al di là dell’analisi sociologica. Invece di un viaggio, Pasolini compie un percorso cristallino dello spirito. Un tuffo nella luce, un lavacro di bellezza senza pari, bella anche se imperfetta, bella, umana e lacerante nei suoi chiaroscuri, devotamente venerata, volutamente restituita alla sua dimensione epica, ritratta in tutto il bagliore e la ferocia della “calda stagione”.
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