Alle 18.40 del 13 luglio di quarant’anni fa la band di Freddie Mercury saliva sul palco di Wembley per partecipare al “charity concert” di Bob Geldof. Un’esibizione entrata nella storia, che rischiò di non tenersi mai.
Nella sequenza iniziale del film “Bohemian Rhapsody” Freddie Mercury, il leggendario cantante dei Queen scomparso nel 1991, si prepara per l’appuntamento forse più importante della sua vita. Si spunta i baffi, li pettina, sveste il kimono che gli fa da vestaglia e indossa un paio di blue-jeans e una canottiera, inforca gli occhiali da sole e parte in Rolls Royce per lo stadio di Wembley. A Wembley – si capisce dopo quasi due ore di film – lo aspetta il più grande concerto dal vivo della storia: il Live Aid, organizzato dal cantante irlandese Bob Geldof per raccogliere fondi a favore dell’Etiopia, vittima di una terribile carestia.
I Queen e i retroscena del Live Aid del 1985
È il 13 luglio del 1985 e Freddie Mercury, nelle prime ore del pomeriggio, avrebbe potuto non essere su quella macchina. Né i Queen sul palco di Wembley, per un’esibizione prevista alle 18.40 secondo la rigida scaletta dell’evento. Sono una delle band più popolari del mondo, i Queen: dieci anni prima hanno raggiunto il successo planetario con l’incredibile “Bohemian Rhapsody”, sei minuti di scintillante, camaleontica opera rock, e da allora macinano hit senza temere l’usura del tempo. Nell’autunno del 1984, però, hanno commesso un passo falso: invitati a suonare nel Sud Africa dell’apartheid, non si sono rifiutati e hanno infiammato Sun City, la “città casinò” dei bianchi, con una serie di fortunati show. Aperti a un pubblico di tutte le razze, si difende la band, ma ormai lo star system musicale ha emesso la sua sentenza.
Bob Geldof ci ripensa e invita i Queen al Live Aid
Per via della loro condotta, considerata avida e irrispettosa, i Queen sono esclusi dalla Band Aid, un supergruppo di star britanniche che a dicembre del 1984 lancia il singolo di beneficenza “Do they know it’s Christmas?”. L’iniziativa è sempre di Bob Geldof e il proposito ancora quello di raccogliere fondi per l’Africa. Quando Geldof concepisce l’idea del Live Aid, un concerto congiunto delle più grandi star del pop mondiale, i Queen sembrano destinati ad essere di nuovo esclusi. Non ne sono dispiaciuti, per la verità: vengono da un tour estenuante e hanno le pile scariche. Ma poi Bob ci ripensa: qualcuno gli fa notare che escludere dal concerto quello che molti considerano il miglior frontman del rock sarebbe una bestemmia e lui, irlandese pragmatico, torna sui suoi passi. A questo punto sono i Queen, piccati, a fare le bizze, ma una telefonata diretta di Geldof a Freddie Mercury risolve tutto. “È il palco perfetto”, gli dice Bob, “lì fuori ci sarà il mondo”.
Freddie Mercury rischia di dare forfait per una tracheite
Il 13 luglio del 1985, in effetti, circa 75.000 persone riempiono lo stadio di Wembley, a Londra, altre 90.000 sono sugli spalti dello stadio di Philadelphia e almeno un miliardo e mezzo di spettatori guarda il concerto attraverso una rete di emittenti televisive in tutto il mondo. A dispetto di tutto, però, ancora una volta Freddie Mercury rischia di dare forfait. Alla vigilia del live il medico gli diagnostica una forte faringite e gli vieta di esibirsi: lui non ci pensa proprio a perdere l’occasione, prende medicine e intrugli per la gola, fa ginnastica vocale, rinuncia ad assistere all’apertura del concerto, alla presenza dei principi Carlo e Diana, e arriva allo stadio solo poche ore prima dell’esibizione. È sereno, da pochi mesi ha incontrato Jim Hutton, che sarà il suo compagno fino all’ultimo e quel giorno, per la prima volta, lo vedrà esibirsi. Prima, Freddie sguazza con agio assoluto nel backstage, gioca con Elton John (“Hai un cappello che sembra quello della Regina Madre”, gli dice) e scherza con un gioco di parole sul ventilatore del camerino di David Bowie (“È l’ultimo fan che ti è rimasto..”). Trova anche il modo di commentare con favore le prove vocali di George Michael e Bono degli U2.
L’apoteosi di Wembley: quando i Queen conquistarono il mondo in 20 minuti
Poi, alle 18.40, i Queen salgono sul palco di Wembley. Hanno venti minuti, come tutti, per inanellare alcune tra le hit più famose del loro repertorio. Bob Geldof è nervoso: dopo cinque ore di concerto, la raccolta fondi stenta ancora a decollare; Jack Nicholson preannuncia l’esibizione da Philadelphia, a Londra due comici vestiti da poliziotti scattano sull’attenti pensando che debba salire sul palco la Regina d’Inghilterra. È un gioco, ovviamente, ma quanto a maestà Freddie Mercury non è secondo a nessuno. Entra in scena elettrico, istiga il pubblico e poi sfodera una performance vocale eccezionale cavalcando una selezione dei maggiori successi dei Queen, da “Bohemian Rhapsody” a “We are the champions”. L’interazione col pubblico (una parte del quale a stento lo conosce) è straordinaria: sulle note di “Radio Gaga” settantamila persone battono le mani a ritmo col cantante, per il finale di “We are the Champions” lo stadio si trasforma in un mare ondeggiante di folla in delirio. Nel mezzo del set Freddie improvvisa un vocalizzo col pubblico e prolunga un acuto che fa sussultare lo stadio. Gli stessi compagni di band se la ridono sotto i baffi.
La consacrazione di un mito
Nel backstage sembra di sentire il pifferaio magico. Tutti si fermano e tendono l’orecchio al palco. Tutti sono consapevoli di ascoltare qualcosa di irripetibile, per feeling e energia. Quando Freddie torna in camerino, stravolto dall’eccitazione, l’amico Elton John ha solo il tempo di dirgli: “Voi, bastardi, ci avete rubato lo show”. Deve ancora esibirsi, e come lui David Bowie, gli Who, Paul McCartney. Lo stesso Freddie tornerà sul palco col chitarrista Brian May per eseguire l’acustica “Is this the world that we created?”. Ma ormai il dado è tratto e l’asticella si trova troppo in alto per tutti. Già dal giorno dopo l’esibizione dei Queen è salutata come una delle più elettrizzanti della storia del rock, riporta il gruppo sulla cresta dell’onda e contribuisce in maniera determinante al successo (anche finanziario) del Live Aid. Non è il canto del cigno di Freddie Mercury, che ancora non sa di incubare il virus dell’HIV. Lo scoprirà quasi due anni più tardi, dopo un altro trionfale tour coi Queen, e lo renderà pubblico solo il giorno prima di morire. Per essere guardato, fino alla fine, solo come un musicista.
Il 13 luglio del 1985 resta in ogni caso una pietra miliare nella definizione dell’eredità musicale di Freddie. Imbarcati con sospetto, i Queen sono diventati nel tempo l’immagine stessa del Live Aid: il giorno in cui l’edonismo degli anni Ottanta trovò una causa di cui essere orgoglioso.
(Foto apertura: Lenscap Photography/Shutterstock.com)
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