In questi anni più recenti siamo bombardati da dati, commenti, previsioni, calcoli di ogni tipo riguardo al futuro del nostro pianeta, assediato da un numero sempre più grande di persone anziane o molto anziane e, allo stesso tempo, popolato da un numero sempre minore di giovani. Basta un dato: oggi gli ultrasessantacinquenni in Italia sono il 19,5% della popolazione, mentre i cittadini nella fascia 1-14 anni sono il 14,1%. Sono dati impressionanti in forte, ulteriore evoluzione negativa, perché la riduzione del numero delle donne in età fertile porterà necessariamente ad una ulteriore riduzione delle nascite, anche se fosse teoricamente possibile aumentare il numero dei figli per donna. Inoltre, nello scenario è doveroso considerare che sopravvivono persone con malattie che un tempo erano causa di morte precoce; così gli ultraottantenni sono il 4,57% della popolazione, mentre vi sono 23.000 centenari. Numeri drammatici e purtroppo ancora in evoluzione negativa: a nulla serve, però, insistere con atteggiamenti pessimistici. La realtà difficile del nostro tempo non ha bisogno di lamenti né di un’insistenza autodistruttiva sul possibile futuro. Dobbiamo, invece, partire dall’idea realistica che il mondo non finirà troppo presto e che riusciremo ad affrontare e a gestire anche le crisi causate da un’aumentata richiesta a livello economico-organizzativo e umano in ambito pensionistico, assistenziale, sanitario, dell’organizzazione delle nostre città. Nei secoli abbiamo già assistito a momenti nei quali sembrava che la comunità umana non fosse in grado di gestire situazioni di forte cambiamento: poi la storia ci ricorda che sono state superate. Purché si costruiscano ipotesi valide di futuro, si attuino sperimentazioni, si abbia la capacità di costruire il nuovo senza reticenze o legami malsani con il passato. Vi è un ‘mondo possibile’ anche a cominciare da domani!
Quali sono gli ambiti più delicati? Un primo aspetto riguarda l’atteggiamento morale da assumere verso i numerosi anziani che ci circondano. La diffusione della cultura ‘ageista’ è uno spettro che vaga nel nostro tempo, nonostante molte affermazioni in senso contrario. Un piccolo esempio sono i tagli al bilancio del National Institute of Aging imposto dall’attuale amministrazione americana; se questo atteggiamento di rifiuto di dedicare impegno e risorse ai vecchi si diffonde, la soluzione di problemi posti dall’invecchiamento sarà sempre più lontana, perché il fenomeno continua in tutte le sue espressioni e la collettività non deve assolutamente rinunciare a porvi rimedio. Si potrebbe dire che certi atteggiamenti della politica, mirati ad effimeri risparmi, non sono in grado di guardare al futuro. Una sorta di egoismo mortale, una difesa dei forti a scapito dei deboli (gli anziani!).
Ponendosi in antagonismo a questa visione è necessario indicare quali “mondi siano possibili”, per cercare di affrontare la crisi demografica. Un primo aspetto rilevante, tra i molti che si pongono in questo ambito, riguarda il mondo del lavoro. Dobbiamo constatare con realismo che le nuove tecnologie provocheranno l’allontanamento dal lavoro di una quota rilevante di cittadini, anche se hanno contribuito alla loro pensione per un tempo limitato. Sarà quindi obbligatorio imporre un cambiamento radicale dei meccanismi di pensionamento, consentendo la trasformazione delle vittime precoci delle tecnologie in operatori del mondo dei servizi. In questo modo, il previsto costo dei pensionamenti dovuti alle nuove tecnologie verrà assorbito dal lavoro prestato in ambito dei servizi alla persona da parte dei pensionati precoci. Ovviamente si tratta di operazioni che richiedono una forte guida politica, ma di grande efficacia umana e organizzativo-economica. In questo modo, nel prossimo futuro si può affermare in modo schematico che il lavoro sarà distribuito tra gli addetti ai lavori usuranti, che continueranno ad andare in pensione precocemente per ovvie ragioni di salute (in questo ambito, peraltro, sarà difficile ipotizzare una sostituzione completa da parte dei robot). Vi sarà un numero in diminuzione di addetti alle nuove professioni tecnologiche e un adeguato numero di operatori in ambito dei sistemi di welfare, in gran parte individui espulsi anche dal mondo delle tecnologie. Sarà necessario a questo proposito trovare modalità di convivenza tra questi nuovi addetti al mondo del welfare e gli operatori provenienti da paesi lontani (anche se la bella favola dei lavoratori dei paesi più poveri che vengono a salvare la vecchia Italia egoista si sta progressivamente esaurendo e certamente non è destinata a durare per molti anni!).
Non si tratterrà certamente di dinamiche facili da attuare, ma potrebbero rappresentare un primo aspetto da prendere seriamente in considerazione per gestire l’attuale fase di passaggio. Ma avremo il coraggio di affrontare questi cambiamenti, senza lasciarci dominare dal pessimismo, da una politica imbelle, dalle paure che paralizzano qualsiasi speranza? Troveremo la forza intellettuale e morale per superare questa crisi? Certamente: se avremo l’attenzione di evitare che il progresso tecnologico affascini le teste migliori, distraendole dalle esigenze reali delle comunità, potremo sperare in un “futuro possibile”.
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