A cinquant’anni dalla pubblicazione, il capolavoro dei Queen è tra i brani più popolari al mondo. Simbolo di creatività e mistero, riassume tutta l’eredità musicale di Freddie Mercury, il suo geniale compositore
Nell’estate del 1975 i Queen vivono un curioso paradosso. Sono gli astri nascenti del rock britannico ma si trovano sull’orlo della bancarotta, per una serie di contratti capestro e la condotta allegra di chi li ha gestiti. John Reid, il nuovo manager, è chiaro: devono sfornare un album “stratosferico” per rimpinguare le loro casse. D’altra parte, lanciati nello star system dal successo degli ultimi lavori, i quattro hanno tutta l’intenzione di consolidare il loro status e cimentarsi in nuove sfide. Si chiudono a Ridge Farm, uno studio di registrazione dentro una fattoria al confine tra Inghilterra e Galles, e in completo isolamento danno sfogo alla creatività. Freddie Mercury, il cantante della band, ha in mano da qualche anno un abbozzo di canzone al pianoforte: “Mamma, ho ucciso un uomo/ gli ho puntato la pistola alla testa/ ho premuto il grilletto e adesso è morto”. L’ha chiamata The cowboy song, per l’atmosfera vagamente western. Più di recente ha cominciato a ronzargli in testa un potente riff di chitarra, ma non è abbastanza bravo con lo strumento. Lo suona al pianoforte al chitarrista Brian May, che lo replica con la sua Red Special. E poi Freddie ha un’idea folle: un coro polifonico in stile operistico, un po’ sopra le righe, che ripete parole sconnesse ed evocative, come “Galileo”, “Figaro”, “Bismillah”, e parla di un “povero ragazzo” che “nessuno ama”. A Ridge Farm il progetto di Mercury si precisa. Unire i tre spezzoni di canzoni e realizzarne una sola: un viaggio musicale tra stili e registri, che sintetizzi le molteplici ispirazioni dei Queen. Il rock, certo, la melodia e poi complessità e grandeur della musica classica nel senso più ampio: opera, operetta, vaudeville. Le registrazioni cominciano a fine agosto e durano per sei settimane: la canzone assume una struttura ancora più complessa e fascinosa. Dopo un’introduzione corale, la voce di Freddie Mercury intona una melodia accattivante con l’accompagnamento del suo pianoforte e del basso di John Deacon; nella seconda strofa entra la batteria di Roger Taylor, poi la chitarra di Brian May, che attacca un vertiginoso assolo. Dovrebbe essere l’introduzione al ritornello ma un ritornello non c’è: al suo posto parte un coro di tre voci (Freddie, Brian e Roger) che sembrano trenta. L’effetto viene ottenuto sovraincidendo su nastro i vari interventi vocali. Alla fine le sovraincisioni sono così tante che il nastro è quasi consumato. Miracolosamente si salva e il suo contenuto, incredibile, è consegnato alla storia. Con un acuto in falsetto di Roger Taylor la “sezione operistica” transita nell’esplosione hard rock. Brian May suona il riff pensato da Mercury e Freddie canta: “Così pensi di lanciarmi pietre e sputarmi negli occhi,/ pensi di amarmi e poi lasciarmi morire./ Non puoi farmi questo, bambina./ Devo solo fuggire, solo fuggire via di qui”. La chitarra e poi il pianoforte scandiscono una nuova transizione e si ritorna a una melodia che ricorda quella iniziale. Il testo diventa filosofico: “Niente conta davvero,/ possono vederlo tutti./ Niente conta davvero, niente conta davvero per me”. La musica sfuma, poi Freddie sussurra “e intanto il vento soffia”. Un suono di gong chiude il pezzo. Alla fine la durata risulta di sei minuti esatti: niente di sconvolgente per gli standard di certa musica rock e progressive del tempo, ma un problema serio se si vuole lanciare la canzone come singolo. Dalla clausura di Ridge Farm escono altri dieci pezzi, alcuni molto buoni, ma la “canzone del cowboy” è perfetta per riassumere lo spirito di tutto l’album. Zingaresca ed errante, viene battezzata Bohemian Rhapsody, mentre il disco, intriso di richiami alla musica “colta”, assume il titolo definitivo di A night at the opera. Il nome viene da un film dei fratelli Marx: quando l’anno successivo la band fa visita a Groucho in America, il comico baffuto li fulmina con un “sono felice che usiate i titoli dei nostri film, il prossimo si chiamerà The Best of Rolling Stones”. Resta il nodo del singolo. I Queen, compatti, vogliono Bohemian Rhapsody, ma la casa discografica si oppone: troppo lunga per passare in radio. Freddie Mercury gioca in contropiede: porta il nastro della canzone all’amico Kenny Everett, dj in una radio privata di Londra, e quello comincia a trasmetterla a ripetizione. In pochi giorni la EMI, la casa discografica dei Queen, è sommersa di richieste da parte dei fan e Bohemian Rhapsody diventa singolo a furor di popolo. Pubblicata il 31 ottobre del 1975, si rivela un successo enorme: stabilisce il record di nove settimane consecutive in vetta alle classifiche inglesi, vince premi e trascina l’album al successo in Europa e in America. Le sorti finanziarie del gruppo sono salve e in Gran Bretagna esplode la Queenmania, consacrata da un memorabile concerto all’Hammersmith Odeon di Londra la sera di Natale del 1975. Lanciata nuovamente come singolo nel dicembre del 1991, dopo la morte di Freddie Mercury, Bohemian Rhapsody torna in testa alle classifiche inglesi e fissa un altro record. Oggi, nell’era digitale, ha superato il miliardo di streaming su Spotify e sfiora i due miliardi di visualizzazioni su YouTube. Non a caso ha dato il titolo al biopic su Mercury, che le deve in buona parte la fama di cantautore irriverente e geniale.
La struttura complessa e originale, il testo misterioso e suggestivo (“ognuno può leggerci ciò che vuole”, diceva Freddie) ne hanno fatto un inno alla creatività e un invito a rompere gli schemi, che avvince anche le nuove generazioni. Chissà cosa ne penserebbe uno che, sorriso sulle labbra, decretava: “Le mie canzoni sono come lamette da barba: da usare e buttare via”.
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