Perfezione formale applicata alla vita pulsante, realtà che diventa archetipo: l’eredità del fotografo veneto è una lezione di ricercata naturalezza. Campione del reportage, lascia 250 cataloghi fotografici.
La capacità di visualizzazione, a volte virtuosistica, e l’abilità di astrarsi dalle tendenze in voga, slittando automaticamente “oltre le mode”, sono i meriti principali che lo storico della fotografia Italo Zannier riconosce a Gianni Berengo Gardin. L’ultimo grande maestro italiano della fotografia del Novecento è scomparso lo scorso 6 agosto a 95 anni. Della fotografia italiana, nella seconda metà del Novecento, Berengo Gardin è considerato dallo stesso Zannier l’esponente più autorevole, anche per la capacità di restare in dialogo con le grandi tendenze mondiali (fatta salva la sua originalità) e per il retroterra composito della sua arte.
Le origini, Gianni Berengo Gardin ispirato da Cornell Capa
Composite erano anche le sue origini: nato nel 1930 a Santa Margherita Ligure, dove la madre, svizzera, dirigeva un hotel, ma cresciuto a Venezia, la città del padre. Folgorato dalla fotografia grazie al dono di alcuni cataloghi da parte di Cornell Capa, fratello del più famoso Robert, cominciò a collaborare con “Il mondo” di Mario Pannunzio poco più che ventenne, negli anni Cinquanta. Senza mai abbandonare l’inchiesta giornalistica mostrò un’eccezionale versatilità, spaziando dal reportage umanista all’indagine sociale, dalla rappresentazione del paesaggio alla foto industriale, e arrivò a collaborare con l’agenzia Magnum di Henri Cartier Bresson e con alcune tra le più prestigiose riviste internazionali (Time, Stern, Epoca, Le Figaro). Lascia in eredità circa 250 libri di fotografia e quasi 300 mostre in giro per il mondo, consacrate da prestigiosi riconoscimenti di settore.
Un maestro della composizione che rivendicava la naturalezza
Berengo Gardin è stato un maestro della “composizione”, della disposizione delle figure nello spazio e nella prospettiva, della simmetria, del gioco di luci e ombre. Curiosamente rivendicava la “naturalezza” dei suoi scatti, frutto di un’emozione e dell’interesse verso una storia, senza troppa attenzione all’elemento tecnico. La verità, forse, sta nel mezzo: innegabile, la ricerca tecnica di Berengo Gardin viene a un certo punto interiorizzata, sicché le decisioni e le posture che ne derivano sono assunte quasi istintivamente.
Berengo Gardin: “Sono nato col bianco e nero”
Berengo Gardin faceva foto in bianco e nero (“sono nato col bianco e nero”, diceva, “questione affettiva; e poi il colore distrae dal soggetto”), spesso dilatate dal grandangolo e rigorosamente su pellicola (“non ho niente contro il digitale, ma è freddo; oltre al fatto che la pellicola lascia la traccia preziosa del negativo”).
Un uomo e una donna, di spalle, seduti dentro un’auto decappottabile ferma di fronte al mare, sotto un cielo mezzo bianco e mezzo nero; mani aggrappate al bordo della chiglia di un gozzo, mentre tentano di risalire o solo di non essere risucchiate dal mare; due innamorati che si baciano sotto un portico, perfettamente al centro della scena, mentre i lampioni corrono sulle loro teste e le arcate sfilano ai due lati; una gondola nera che fluttua in un canale di Venezia, sullo sfondo dei palazzi bianchi; l’incredibile gioco di specchi che ritrae i passeggeri di un vaporetto nella laguna di Venezia (una foto annoverata da Henri Cartier Bresson tra le 100 più belle del XX secolo) e cinquant’anni dopo l’enorme mole di una nave gigante che appare in fondo a una calle veneziana, così straniante da sembrare un fotomontaggio. Tutte foto che esprimono una staticità pressoché perfetta, classica, che estrae l’immagine dal tempo e quasi la proietta in una dimensione ideale.
La foto non deve essere bella ma buona
La grandezza di Berengo Gardin sta proprio in questo: partire dalla realtà e trasformarla in archetipo, attraverso un’immagine che supera lo spazio e il tempo e diventa immediatamente iconica. La bellezza degli scatti del maestro veneto è evidente, forte al punto da affascinare anche chi non è esattamente esperto della tecnica fotografica. Eppure lui stesso affermava di rifiutare la bellezza fine a sé stessa, espressa ad esempio nelle foto patinate della moda, prive di sfondo e di contesto.
Da uno dei suoi maestri, Ugo Mulas, Berengo Gardin aveva imparato che una foto non deve essere bella ma buona. È buona se imprigiona un attimo di tempo, se racconta una storia, trasmette un’emozione, se suggerisce un oltre. Al di là della perfezione tecnica. Nelle foto di Berengo Gardin la perfezione tecnica è una cornice, una confezione impeccabile che avvolge un attimo di vita parlante. Per sempre parlante. La vita: è quello, forse, il fine ultimo dell’arte del maestro veneto. Sembra appropriata, nel suo caso, una famosa frase di Eduardo De Filippo: “Chi cerca la vita, trova l’arte; chi cerca l’arte, trova la morte”.
(Foto apertura: Elio Villa / Shutterstock.com)
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