Abbiamo raccolto le testimonianze di Francesco Sacchi, capo progetto di Emergency, e del medico chirurgo Irdi Memaj: «Infezioni della pelle e delle vie respiratorie sono frequenti e spesso gravi ma è difficile debellarle quando le persone vivono in tenda. E gli sfollati sono sempre di più»
«I bombardamenti sono ininterrotti su tutta la Striscia: giorno e notte, a Gaza City e non solo, spesso senza preavviso. Le tende lungo la strada sono sempre di più, arrivano persone in fuga ogni giorno. Alcuni si spostano per la terza o quarta volta, sono esasperati e provati. Curiamo ormai tra i 500 e i 600 pazienti ogni giorno: le infezioni tornano, perché in tenda è difficile curarsi e gli antibiotici diventano inefficaci». Questa è solo una parte del racconto di Francesco Sacchi, 34 anni, originario di Rimini, oggi capo progetto a Gaza per Emergency. Sembra impossibile che la sua voce arrivi proprio da lì, da quei luoghi che la guerra e l’assedio hanno reso lontani, irraggiungibili, invisibili. Ma nella clinica di Emergency ad al-Qarara, da cui mi parla tramite WhatsApp, la connessione è buona, almeno in questo momento. «È capitato che siamo rimasti senza Internet, ma in generale riusciamo a connetterci e a comunicare. Il problema, piuttosto, è il gasolio: quello dobbiamo centellinarlo, per essere sicuri di riuscire sempre a raggiungere la clinica, distante circa 6 chilometri dalla casa in cui viviamo».
Sacchi lavora con Emergency da tre anni, per un anno e mezzo è stato in missione in Afghanistan, poi a gennaio 2025 è arrivato nella Striscia, come capo progetto. Ora, dopo essere rientrato in Italia per qualche mese, è di nuovo nella Striscia, a copertura dell’attuale capo missione, che è in Italia «per riposarsi – spiega Sacchi -. I nostri turni durano un paio di mesi, difficile resistere di più».
Sacchi ha partecipato, come capo missione, all’apertura della clinica di al-Qarara, inaugurata il 25 gennaio 2025. Oltre a gestire questa struttura, Emergency da novembre 2024 offre supporto medico e logistico a un Centro di salute primaria nella zona di al-Mawasi, a Khan Younis, gestito dall’associazione CFTA, un’organizzazione non governativa e indipendente locale.
«Da novembre 2024 a oggi, abbiamo quadruplicato il numero di pazienti», riferisce Sacchi. Si tratta, per la precisione, di interventi di salute primari, patologie croniche, primo soccorso, salute materno-infantile. All’interno della struttura di Emergency, lavora sia personale internazionale – in questo momento sono cinque, tra medici, infermieri e capo missione – sia personale locale: «I gazawi impiegati all’interno della clinica, con diverse mansioni, sono più di 30 – riferisce Sacchi -. La maggior parte di loro vive in tenda. Il lavoro è tanto, il ritmo sostenuto, tanto che stiamo per allungare i nostri orari e incrementare il personale. Da quando il governo israeliano ha avviato l’operazione a Gaza City, il numero degli sfollati qui nella zona è decisamente aumentato, e con questo, sono aumentate le richieste di soccorso nella nostra struttura. Gli attacchi sono intensi, ma tante persone restano lì, nonostante i rischi, perché non ne possono più di spostarsi. Tanti avevano già affrontato la traversata da sud a nord, con i cessate il fuoco. Ora molti non se la sentono di riprendere il cammino, che costa soldi e fatica», racconta Sacchi.
Sono tanti però anche quelli che partono per fuggire dai pesanti bombardamenti che colpiscono continuamente Gaza City. E il numero delle tende non fa che aumentare: «Mentre il cibo e tutto il materiale di cui abbiamo bisogno per assistere queste persone non fa che diminuire – riferisce Sacchi -. Tuttora abbiamo dieci nostri bancali bloccati in Egitto: sono carichi di materiale sanitario e medicinali. Sappiamo che ciò che qui manca si trova a pochi chilometri da qui: subito fuori dalla Striscia c’è tutto quello di cui la popolazione ha bisogno».
Quel poco che viene distribuito viene preso d’assalto, a scapito dei più deboli: «Qui vince il più forte: i nuovi sistemi di distribuzione, come la Gaza Humanitarian Foundation, diventano spesso strumenti di morte».
Le restrizioni degli ingressi non riguardano solo gli aiuti, ma anche gli operatori umanitari.
In queste condizioni e con queste limitazioni, prendersi cura dei malati è sempre più complicato. Irdi Memaj ha 33 anni, è medico chirurgo ed è qui, in missione con Emergency, da poco più di un mese: «Le principali problematiche sanitarie che ci si presentano sono dettate dalle condizioni di vita molto dure: tante infezioni delle vie aeree, soprattutto tanti casi di asma grave tra i bambini, impossibile da curare quando si vive in tenda, in mezzo alla sporcizia e alla polvere. E poi ci sono le malattie della pelle, infezioni anche serie che curiamo con gli antibiotici, ma che poi si ripresentano, rendendo spesso inefficaci anche i farmaci. Come si fa a curare un’infezione quando non si ha acqua a sufficienza per lavarsi?».
Intanto, i medicinali scarseggiano e i pazienti aumentano: «Notiamo la differenza tra chi è sfollato già da tempo e chi invece è appena arrivato da Gaza City: i primi sono in condizioni di salute peggiori rispetto ai secondi, che fino a qualche giorno fa vivevano nelle loro case. E poi ci sono tanti bambini, spesso malnutriti: il nostro programma però li copre fino a 5 anni, per i più grandi non c’è molto che possiamo fare. Ed è durissima non fare niente, di fronte a un bambino che ha fame».
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