Il pianista racconta la genesi di Musica salva, il suo ultimo album concepito tra sperimentazione e ricerca, improvvisazione e tradizione
Scoprire come un unico artista possa essere contemporaneamente un pianista jazz moderno non di rado paragonato a Keith Jarrett, un alchimista sperimentatore di mille linguaggi – da quelli di compositori come Alec Wilder a quelli più all’avanguardia e quasi astratti – e un lirico analista che porta in musica la poesia friulana in una sorta di sottile world music, territorio che frequenta anche con il trio Awen, è enigma che richiede la concentrazione di un bimbo immerso in un libro di fiabe. Eppure, con la disarmante semplicità di chi sa, come Fëdor Dostoevskij, che “senza bellezza non ci sarebbe nulla da fare al mondo”, Stefano Battaglia, l’artista di cui sopra, ci dice: «Non mi sento di fare delle rinunce, semmai voglio provare a sviluppare un’osmosi tra tutti i linguaggi che amo, a determinare un universo poetico che li accolga senza viverli come fossero delle stanze che non hanno canali comunicanti. L’idea mia di improvvisazione è l’avere la possibilità di far convergere in un nucleo unico le tante passioni musicali che nel corso dei decenni mi hanno aiutato».
Ha appena registrato il suo ottavo album per la prestigiosa etichetta tedesca ECM, il quarto in trio, dedicato alla Palestina, che verrà pubblicato con il titolo Terra santa, mentre la sua ultima fatica discografica è il doppio album di piano solo Musica salva, appena uscito. «Abbiamo resuscitato un concerto che era scomparso e che Stefano Amerio (un ottimo ingegnere del suono con il quale ha un fruttuoso sodalizio, ndr.) ha brillantemente ritrovato e rimesso a posto. Siccome era un concerto che avevo fatto durante uno dei simposi pianistici che continuo a tenere come laboratorio di improvvisazione, ho voluto pubblicarlo, perché mi sembra un manifesto di tutto il lavoro che faccio legato alla sola performance con i pianisti che vengono a Siena. C’è il 90% di improvvisazione, totalmente tabula rasa, e il 10% di composizioni totalmente scritte, in un dialogo tra le mie nature di improvvisatore e di compositore».
Ecco una nuova, determinante faccia di questo artista multiforme, quella di docente, ruolo che svolge da 37 anni presso l’Accademia Chigiana di Siena – una delle migliori scuole di musica al mondo – reggendo la cattedra di tecniche dell’improvvisazione e il laboratorio permanente specialistico per pianisti a essa afferente. «Anche come docente tento con tutte le forze di proteggere dei territori che lavorino sulla creatività e sul senso, cioè il suonare “con senso” e non cercando il consenso. Questo, essendo più faticoso, è il massimo che si può chiedere all’accademia, che è abituata a insegnare la grammatica e la sintassi del suonare, cioè il leggere bene ciò che c’è scritto, comprendere i ritmi, i passaggi armonici, le melodie, le strutture. Però l’espressione e ciò che dà senso alla musica è sempre una questione totalmente individuale, che un musicista deve trovare dentro di sé».
Un jazzista difficilmente può pensare che ricevere grammatica e sintassi sia sufficiente?
Non lo è. In questo momento trovo che il jazz sia una musica che si è molto indebolita, che continuiamo ad associare a linguaggi che hanno appunto una loro grammatica e sintassi precisa, ma che smarriscono un ruolo sociale all’interno delle comunità che li suonano. Non possiamo dimenticare che è stato legato all’autoaffermazione di un’intera comunità negli States cento anni fa e quindi dietro al linguaggio c’era una forza potentissima e una determinazione quasi feroce nel voler comunicare. Quella stessa comunità afroamericana negli ultimi 50 anni ha scelto, almeno nella sua parte più sofferente, altri linguaggi. Contemporaneamente il jazz si è globalizzato, però, per come lo suonano in tutto il pianeta, si sente il suo voler diventare una musica di repertorio. Il jazz non può esserlo, deve essere una musica del qui e ora, ben connessa con l’ambiente sociale da cui proviene. Si deve trasformare continuamente, ma mi sembra che siano gli stessi jazzisti che faticano a seguirlo, perché rimangono legati ai linguaggi che li hanno fatti innamorare di questa musica».
Lei ha fondato e dirige la nuova etichetta Centripeta, dedicata alla musica di ricerca. Avete debuttato con Kum!, firmato dal suo ensemble Tabula Rasa, un cd triplo di brani inediti, praticamente un evento che non accadeva da almeno 30 anni.
Tutto è nato perché penso che non si dovrebbe più parlare di jazz, di rock, di pop eccetera. Dopo quasi trent’anni di globalizzazione è necessario difendersi dall’omologazione culturale e riconsiderare la musica come un universo unico, dove va protetta la varietà infinita di possibilità che vi coabitano e va abbattuta ogni divisione tra i generi. È importante costruire una piattaforma nella quale possano convergere musicisti di estrazioni diverse, anche distanti tra loro, che costruiscano una specie di esperanto attraverso il quale comunicare con tutti gli altri musicisti del mondo. Un luogo di dialogo, di accoglienza, di condivisione, dove fare musica anche solo con l’idea di lasciare una traccia, proprio come facevano i primitivi con i petroglifi nelle caverne, di lasciare un segno di una civiltà, anche se questo segno non interessa al mercato del momento.
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