Bachisio Solinas, 86 anni, ricorda il razionamento dei generi alimentari, la povertà diffusa e la convivenza con i soldati. E mette in luce un aspetto particolare: la “rimozione” del conflitto da parte della popolazione
«Sono nato nel 1939, quando finì la guerra avevo sei anni. All’epoca vivevo in un paese della Sardegna centrale, Bono (in provincia di Sassari, ndr), e anche se lì il conflitto si è fatto sentire in modo meno drammatico rispetto al resto dell’isola e dell’Italia, conservo comunque dei ricordi d’infanzia molto chiari. Rivedo ancora oggi con gli occhi della mente un episodio avvenuto proprio sul finire della guerra, una fuga, un allarme generale. Al suono di una sirena tutti abbiamo abbandonato all’improvviso le nostre case per rifugiarci in una zona alta di collina, dove c’era un castagneto. Convinti che lì saremmo stati al sicuro. L’allarme era arrivato perché le truppe tedesche si stavano spostando verso nord, risalivano verso La Maddalena, e perché Bono era un distaccamento militare. La presenza di quest’ultimo è un particolare che non posso proprio scordare, visto che con i soldati – noi bambini – scambiavamo generi alimentari per ottenere indietro carrube. Vivevamo una situazione economica molto complessa, di sopravvivenza. Basti dire che finché non sono andato a scuola non possedevo scarpe, giravo scalzo. Un po’ per povertà, un po’ per – chiamiamola così – “forma culturale”. Ed era proprio negli edifici della scuola che erano ospitati i soldati. Eppure, nonostante la guerra, a Bono la vita sembrava scorrere in modo meno drammatico, tanto che i miei genitori non accennavano mai al conflitto in corso, non ne parlavano mai. Mio padre, poi, per fortuna aveva mantenuto il suo lavoro di “caciaro”, gestiva una produzione di beni alimentari. Da altre parti invece giungevano voci diverse, certamente drammatiche, anche se lontane. Ad esempio, da Cagliari arrivavano notizie di bombardamenti, così come da Sassari. Informazioni che giungevano in modo ovattato visto che in pochissimi avevano una radio e quei pochi che la possedevano parlavano di questi fatti ad ancora meno gente. Ricordo benissimo invece la parola “razionamento”, anche perché l’ho vissuto: avevamo un negozio di generi alimentari e il cibo veniva razionato. Le famiglie avevano la tessera annonaria – che poi manterranno sino ai primi Anni ’50 – e facevano la fila per ottenere il cibo. Da una parte ho vissuto il conflitto in modo certamente meno doloroso, ma dall’altra ho assistito ad una vera e propria rimozione: non ricordo alcuno, ad esempio, che venne a darci notizia della fine della guerra».
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