A 40 anni dal suo assassinio, Paolo Siani tratteggia un ricordo del cronista che lavorava a Il Mattino, freddato a Napoli il 23 settembre del 1985
“Sembra sempre impossibile fino a quando non viene fatto”. Questa frase di Nelson Mandela campeggia sul murale dedicato a Giancarlo Siani in via Vincenzo Romaniello, nel rione Arenella di Napoli. Il luogo dove Giancarlo abitò per tutti i suoi 26 anni di vita e dove fu ucciso la sera del 23 settembre di quarant’anni fa. Tanti fotogrammi si succedono sul muro di una palazzina, tranci del suo viso sorridente, della sua fedele Olivetti, dell’iconica Citroen con cui si aggirava per le vie di Napoli, dipinti nei colori che a quei simboli appartengono: il verde acceso dell’auto, il grigio della macchina da scrivere, con una patina di luce che era tutta del sorriso di Giancarlo. Sui disegni sono impresse alcune frasi emblematiche, e quella di Mandela, più di tutte, sintetizza il lascito del giornalista. Collaboratore de Il Mattino, autore di inchieste che rivelarono traffici e intrecci malavitosi nell’hinterland napoletano, Giancarlo Siani fu freddato sotto casa da due killer assoldati dal clan Nuvoletta. Un giovane eroe dell’informazione libera, un cronista che rese possibile l’impossibile – parlare di camorra con spirito di verità – ma anche un ragazzo che amava la vita e voleva viverla fino in fondo. Il fratello maggiore Paolo, medico e già deputato, lo ricorda senza retorica. «Giancarlo era un ragazzo normale. Allegro, spensierato, vitale. Era fidanzato, impegnato nel sociale, giocava a pallavolo, insegnava in un’università della terza età. Voleva fare il giornalista, più di tutto, e giorno dopo giorno vedeva il suo sogno diventare realtà». Il rapporto tra i due fratelli, che vivevano entrambi nella casa di famiglia all’Arenella, era molto stretto. «Era – spiega Paolo – il rapporto di due giovani uomini che si affacciano alla vita. Avevamo frequentato le stesse scuole, condividevamo molti amici. Io ero da poco diventato medico ospedaliero, lui cercava di fare il giornalista. Una vita apparentemente spensierata. Solo dopo la sua scomparsa scoprimmo, soprattutto dai racconti dell’ex fidanzata, l’esistenza di pensieri e preoccupazioni che teneva per sé». Tutto nasceva dall’amore di Siani per il giornalismo, dalle circostanze in cui si trovava ad esercitare il mestiere e dal modo in cui cercava di farlo. «Giancarlo – continua il fratello – aveva un forte senso dell’etica, nato in famiglia, che comportava il rispetto delle regole e l’attenzione per i più deboli. Scriveva di scuola, di lavoro, di traffico, di droga. Era entrato nell’orbita del Mattino, il più grande giornale della città, che lo mandò a Castellammare di Stabia, dove era in atto una faida di camorra per il controllo del traffico di droga. Si ritrovò ‘inviato di guerra’ quasi senza rendersene conto. Solo non stava nella pelle per l’opportunità di scrivere così tanti articoli (circa 650 in pochi anni), raccontando eventi cruciali che accadevano quotidianamente. Più scrivi, più hai possibilità di essere assunto, pensava». Quelli di Giancarlo, però, non erano articoli qualunque, sottolinea Paolo. «Un giorno mi capitò di chiedergli se aveva paura e lui mi rispose: “Di cosa? Io racconto i fatti una volta che sono accaduti”. Ma in realtà faceva molto di più. Spiegava i fatti, svelava i retroscena. Anche nel famigerato articolo del 10 giugno 1985 rivelò che il boss Valentino Gionta era stato arrestato non, come dicevano gli altri giornali, durante un normale controllo di polizia, ma per via di una soffiata del clan dei Nuvoletta, che in quel modo intendeva siglare la pace con la famiglia Bardellino. Con quell’articolo, hanno stabilito le indagini, Giancarlo firmò la sua condanna a morte: l’accusa di infamia a un mafioso era una colpa imperdonabile». Un lungo processo ha condannato, con sentenza passata in giudicato, mandanti ed esecutori dell’omicidio del giornalista, malgrado la suggestione di piste alternative rimaste senza riscontro. Paolo Siani è diretto: «Giustizia è stata fatta. Ci sono voluti undici anni, neanche tanti per la media dei processi di mafia, ma alla fine è stata fatta. E non solo con la sentenza per l’assassinio di Giancarlo. In altre due sentenze, collegate al caso, il giudice D’Alterio ha delineato l’ambiente in cui il delitto Siani è maturato, gli stretti legami tra la camorra e la politica in quel momento storico, secondo le intuizioni di Giancarlo».
Molto tempo è passato da allora e tante cose sembrano diverse. «Oggi l’atmosfera è cambiata – conferma Paolo Siani -, i capi clan sono tutti in carcere, nelle scuole di ogni ordine e grado si parla di legalità. È aumentata la sensibilità e si sono raffinati i mezzi, anche tecnologici, per contrastare la malavita. Quello che manca è la prevenzione. Le famiglie mafiose sono sempre le stesse: padri e nonni sono in carcere e subentrano i figli, quasi per decreto fatale. Bisognerebbe offrire possibilità alternative ai giovani incensurati di quelle famiglie, strapparli al loro ambiente e trasferirli in contesti nuovi, sul modello del programma che attua a Reggio Calabria il giudice Di Bella». Del tanto che è stato fatto è responsabile anche l’esempio e l’eredità di Giancarlo Siani. Un’eredità da tenere viva nei suoi contenuti più autentici, riflette Paolo. «Quando rileggo gli articoli di Giancarlo, mi colpisce la presenza costante di un risvolto positivo. Un orientamento verso il bene, il riscatto. Anche nel suo ultimo pezzo, parlando dell’arresto di alcuni ‘moschilli’ (giovanissimi spacciatori di droga) a Torre Annunziata, si chiede che ne sarà di quei ragazzi. Ecco, la dimensione etica: questo vorrei rimanesse di Giancarlo. Era un giovane perbene, motivato, capace di leggerezza e impegno, deciso a fare bene il suo lavoro. E aveva un sorriso contagioso, lo stesso rappresentato sul murale dell’Arenella, che tornerà a risplendere, dopo un restauro, il 23 settembre».
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