Riccardo Regis, docente di Dialettologia italiana all’Università di Torino, spiega: «Quelli che si parlano in Italia sono per la maggior parte da considerarsi sistemi linguistici distinti»
I dialetti che si parlano in Italia costituiscono uno dei più ricchi patrimoni linguistici d’Europa. Il fatto che ognuno di essi sia diffuso in aree specifiche e circoscritte, non ne sminuisce le caratteristiche di lingua con propri fonologia, morfologia, sintassi e lessico. Si tratta di un patrimonio culturale di grande valore, che affonda le radici nella storia del nostro Paese, e che oggi rischia di andare perduto per una sempre minore trasmissione intergenerazionale.
Secondo gli ultimi dati Istat disponibili sull’uso dei dialetti, rilevati nel 2015 e pubblicati nel 2017, si stima che il 45,9% della popolazione si esprima prevalentemente in italiano in famiglia, e solo il 14,1% parli solo o soprattutto in dialetto, il cui uso esclusivo, che diminuisce in tutte le fasce d’età, resta una consuetudine più fra gli anziani che fra i giovani.
«I dati Istat mostrano un’Italia divisa, con un Nord-Ovest dove i dialetti sono in profonda crisi già da decenni – spiega a 50&Più Riccardo Regis, docente di Dialettologia italiana all’Università degli Studi di Torino -, come mostrano i dati di Piemonte e Lombardia, dove l’impiego esclusivo o prevalente del dialetto nel contesto familiare riguarda rispettivamente il 7,8% e il 5,6% della popolazione; se ci spostiamo nel Nord-Est o nel Mezzogiorno, le percentuali d’uso dichiarate risultano molto più elevate».
Quali sono le cause di queste differenze?
Sicuramente sono legate a fenomeni storici, come l’imponente migrazione del secondo dopoguerra dal Mezzogiorno al cosiddetto triangolo industriale, formato da Torino, Milano e Genova, che ha modificato il tessuto sociale del Nord-Ovest d’Italia, anche a causa di fenomeni di ghettizzazione degli immigrati che venivano di fatto privati della possibilità di integrarsi, anche a livello linguistico. C’è poi anche un fattore più strettamente linguistico: mentre, per esempio, la distinzione fra italiano e piemontese è sempre molto chiara, perché si tratta di due sistemi strutturalmente molto lontani, nel Sud o nel Nord-Est c’è una minore distanza fra italiano e dialetto, e questo facilita il mantenimento degli idiomi locali e la commistione con la lingua nazionale.
I dialetti possono essere considerati come sistemi linguistici a tutti gli effetti?
Spesso sono considerati i “fratelli poveri” dell’italiano, ma dal punto di vista di uno studioso di scienze linguistiche non c’è alcuna differenza fra lingua e dialetto. Quelli che si parlano in Italia sono per la maggior parte da considerarsi sistemi linguistici distinti rispetto alla lingua nazionale, e spesso c’è una distanza strutturale fra italiano e dialetto maggiore rispetto a quella che si riscontra fra lingue nazionali diverse. Solo che per ragioni storiche quelli che chiamiamo dialetti non sono usati in ambito istituzionale e formale. Ci sono però due eccezioni: il toscano, che non è un sistema linguistico distinto rispetto alla lingua nazionale, essendosi l’italiano sviluppato proprio dal toscano, e in particolare dal fiorentino; e il romanesco, che deriva da una forte ‘toscanizzazione’ del dialetto locale, avvenuta nel corso del 1500 e dovuta a una serie di concause storiche.
Quando è cominciato il “declino” dei dialetti?
Negli anni Cinquanta e Sessanta abbiamo assistito a politiche linguistiche familiari improntate alla trasmissione dell’italiano: certamente è stato opportuno puntare alla conoscenza della lingua nazionale, ma tale processo non avrebbe dovuto essere di tipo sostitutivo, perché il plurilinguismo, quali che siano le lingue coinvolte, è sempre un valore aggiunto. All’inizio degli anni Duemila, Gaetano Berruto, uno dei principali sociolinguisti italiani, ha osservato che il dialetto cominciava a perdere lo stigma che lo aveva sempre accompagnato, e ha parlato di “risorgenze dialettali”, che fossero nei blog, nelle chat, nelle voci di Wikipedia. In Italia è per esempio ben attestato, negli ultimi anni, il fenomeno del “polylanguaging”, cioè l’uso caotico di lingue diverse, da parte dei giovani, nella messaggistica istantanea e nei social media. Troviamo quindi la compresenza di elementi di origine inglese, francese, spagnola e dialettale, anche se spesso si tratta di elementi lessicali isolati o di espressioni fisse e stereotipate, che non ci danno indicazioni sulla reale soglia di competenza del parlante/scrivente.
C’è una tutela normativa per i dialetti?
Abbiamo delle leggi regionali, mentre l’unica normativa nazionale, la Legge 482 del 15 dicembre 1999, si occupa delle minoranze linguistiche storiche, come, per esempio, l’albanese, il catalano, il greco, le lingue germaniche, l’occitano, il francoprovenzale.
Come si protegge questo patrimonio?
Ci sono iniziative interessanti, come il progetto delle edizioni Panini di pubblicare il fumetto di Topolino nei diversi dialetti, coprendo man mano tutte le regioni d’Italia, che ha avuto un successo commerciale straordinario. Non possiamo però pensare che singole iniziative, che hanno il merito di accendere i riflettori sui dialetti, possano portare a un ripristino del loro uso. L’unico modo per preservarli è trasmetterli ai propri figli, perché laddove questo processo si interrompe, il dialetto è destinato a sparire nell’arco di qualche decennio.
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