A Lecco, nelle sale di Palazzo delle Paure, la mostra del ‘pittore pazzo’
Il Van Gogh della valle Padana, pittore candido, pittore pazzo, visionario tormentato, pittore della gente semplice, barbone che cantava con i colori. Sono solo alcuni dei titoli apparsi sui giornali alla morte di Antonio Ligabue (o Antonio Laccabue, 1899-1965), avvenuta al ricovero Carri di Gualtieri il 27 maggio 1965.
«A me faranno un film – quando sarò morto -, a me faranno una grande mostra a Parigi, a me faranno un monumento, perché me sono un grande artista, avete capito?», diceva a chi lo scherniva. Reietto e dileggiato in vita, celebrato dopo la morte, Ligabue ha vissuto ai margini. Preferiva stare da solo. Scappava spesso in campagna ad annusare l’odore della terra dopo la pioggia, mangiava quanto gli offrivano i contadini, dormiva dove gli capitava. E dipingeva. Il suo rapporto con la pittura fu totale, tanto da risultare una vera forma di sopravvivenza. La terra, la natura e, soprattutto, gli animali, quelli della campagna ma anche quelli feroci, erano i suoi soggetti privilegiati. Leonesse che azzannano zebre, giaguari che si avventano su gazzelle indifese prendono vita nelle tele esposte a Palazzo delle Paure di Lecco, per la mostra Antonio Ligabue e l’arte degli Outsider, a cura di Simona Bartolena. Animali che l’artista, nato in Svizzera e vissuto nella Bassa padana, dove era soprannominato “Toni al matt”, non aveva mai visto dal vivo, se non da bambino al circo. «Ero bambino e mi portarono in un circo a vedere le bestie feroci – raccontava -. Durante lo spettacolo mangiai un chilo di mele che mi causò una indigestione. Tutta la notte ho visto leoni e altri animali nella mia stanza. Il mattino andai a vedere nella piazza del circo se gli animali erano ancora nelle gabbie o erano scappati per raggiungermi nella camera». Animali selvaggi che diventano, insieme a galli e buoi, lo specchio di qualcosa di ancestrale, proprio della sua stessa psiche, il mondo fantastico in cui trovare rifugio, in una situazione psicologica difficile, fatta di continui ricoveri in ospedali psichiatrici e del tentativo di comunicare attraverso l’atto di dipingere.
È questo il punto di partenza della riflessione offerta dalla mostra di Lecco sul complesso rapporto tra arte e follia: una sessantina di opere per otto artisti (oltre a Ligabue, Filippo de Pisis, Carlo Zinelli, Gino Sandri, Edoardo Fraquelli, Pietro Ghizzardi, Mario Puccini, Rino Ferrari), che hanno conosciuto il manicomio o le cui ricerche hanno seguito percorsi anomali, fuori dagli schemi. Otto storie personali, otto linguaggi di artisti definiti come “outsider” perché considerati fuori dai confini e dai codici della “normalità”.
«Il rapporto tra arte e “follia” – racconta la curatrice della mostra – è un tema molto delicato e complesso, che merita grande attenzione. Innanzitutto, mi pare difficile definire il termine follia, soprattutto se collocato in ambito artistico. Gli artisti vedono il mondo da altri punti di vista ed escono, per forza di cose, da ciò che noi definiamo normalità. L’arte, come diceva Jean Dubuffet, raramente dorme nei letti che le sono stati preparati, più spesso cerca altre vie, sgorga là dove non ce l’aspettiamo».
Alcuni artisti, spiega Bartolena, «sono cresciuti e si sono formati seguendo iter tradizionali, hanno fatto parte degli ambienti ufficiali dell’arte, ma ne sono stati esclusi per dolorose esperienze personali. Altri ne sono stati estranei fin dagli esordi e hanno coltivato la loro vena creativa con percorsi autonomi e alternativi».
Il percorso espositivo si apre con l’installazione di Giovanni Sesia (1955), artista contemporaneo che ha lavorato sulle foto dei volti degli internati rintracciate negli archivi delle principali strutture italiane di inizio Novecento: storie che chiedono di non essere dimenticate e che Sesia riscatta dall’oblio con rispettoso amore.
Seguono lavori di Filippo de Pisis (1896-1956), pittore e poeta dotato di una spiccata sensibilità. Al rientro in Italia da Parigi nel 1948 affrontò un declino psichico con il conseguente ricovero a Villa Fiorita di Brugherio, in Brianza. Un senso di vuoto e solitudine, un’inquietudine incontrollabile permea i dipinti di questo periodo, scanditi da poche pennellate magre sulla tela appena preparata. «Non sono pazzo, vedo chiaro… anzi troppo chiaro… in me v’è solo dolore, un grande dolore… Ma la mia testa è chiara…», scriveva.
Un’altra figura commovente è quella di Gino Sandri (1892-1959), finissimo intellettuale, scrittore straordinario, disegnatore e pittore dalla mano felicissima, la cui esistenza è segnata dalla permanenza in manicomio.
Carlo Zinelli (1916-1974), una delle voci più riconosciute dell’Art Brut italiana, ha trovato nella pittura una forma stabile di comunicazione, grazie al sostegno dello psichiatra Vittorino Andreoli che lo definiva «un matto straordinario». Velocissimo Zinelli lavorava otto ore al giorno, dando vita a un lessico visivo visionario, composto di figure bidimensionali, segni ripetuti, ritmi visivi ipnotici.
La rassegna si completa con due affondi su Pietro Ghizzardi (1906-1986), spesso accostato a Ligabue, da cui si differenzia per la scelta di ritrarre esclusivamente le donne del suo paese, ed Edoardo Fraquelli (1933-1995), con la sua pittura di luce, fatta di gialli vibranti e onirici rosa, esito di una liberazione interiore, di speranza, la stessa che si trova nelle sue poesie: «…giorno dopo giorno, nel cuore della vita, con la mia attesa, ho imparato a vivere, ad amare. La mia attesa si è fatta un dolce incanto di parole per chi mi conosce e mi ama». Come ha scritto il critico Stefano Crespi, Fraquelli giunge alla luminosità, al colore, allo sguardo: al cielo dell’addio.
Antonio Ligabue e l’arte degli Outsider
Palazzo delle Paure, Lecco
Fino al 2 novembre 2025
www.vidicultural.com
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