Di poche cose Esther era orgogliosa quanto della sua capacità di mantenersi serena ed equilibrata quando il discorso (o il pensiero) cadeva sull’inevitabile: l’usura degli organi interni, il ridursi progressivo del futuro e infine, a coronamento di una vita spesa ad approfittare del tempo, la morte.
Frequentava con regolarità i funerali. Se se ne presentava l’occasione, cioè se fra lei e il morente c’era una certa familiarità, anche le agonie. Quando era molto più giovane aveva prestato servizio volontario in un hospice, aveva interrotto quando un novantaduenne con una aspettativa di vita di tre settimane si era innamorato di lei e non voleva più saperne di morire.
«Non dovevo sbattergli in faccia la mia stupida salute», aveva dichiarato – in lacrime – presentando le sue dimissioni. E da allora aveva girato alla larga dalle strutture preposte alla cura degli incurabili. Del resto, come ammetteva senza remore, da quando aveva passato i settant’anni le occasioni di bazzicare i decessi non le mancavano. I mariti delle sue coetanee si spegnevano uno dopo l’altro come candeline travolte dal maestrale. Le sue coetanee resistevano ma, in quanto vedove, andavano seguite e preparate al prossimo appuntamento: non siamo immortali, ragazze mie, e non è nelle rughe che si annida l’avversario, un aspetto giovanile può essere utile fra i viventi, ma non sposta la data del trapasso.
Sandra, Giulia e Manuela, le sue migliori amiche, si ripromettevano ciclicamente di non frequentarla più, ma poi accettavano i suoi inviti: cucinava con perizia. E serviva soltanto cene splendidamente indigeste: bucatini alla amatriciana, peperonata, spezie, carne rossa sanguinolenta, carciofi fritti. E l’immancabile pastiera. Le amiche si ripromettevano di portarsi da casa un pugno di riso lessato e una mela cotta, ma poi si avventavano su quel cibo proibito rischiando l’overdose. Nessuna di loro era mai morta ma non si stancavano di disapprovare e lasciavano la scena del crimine, lamentando le abitudini alimentari selvagge di Esther e dichiarando che sarebbero state colte da ictus nel cuore della notte, oppure, quel che è peggio, sarebbero ingrassate.
Del resto, benché la considerassero una pazza necrofila, una maniaca ossessionata dalla fine della vita, fin da quando la sua vita era appena incominciata, apprezzavano la sua vitalità. La passione che metteva nella sua professione. Il successo che gliene era derivato. La capacità di continuare a rilanciare sopra i settanta, invece di tirare i remi in barca. La seguivano. Erano le sue cavie, e lo sapevano. Su di loro testava l’efficacia delle sue perorazioni. Per tutta la vita aveva svolto la professione di avvocata, da quando era in pensione arringava tutti quelli che incontrava: conoscenti, amici, ma anche sconosciute ad una presentazione, a un vernissage.
Come molte donne, era una instancabile frequentatrice di incontri culturali, scriveva piccole poesie graziose, leggeva moltissimo. Io l’ho conosciuta così, a uno dei mille incontri coi lettori in occasione dell’uscita di un mio libro. Ci siamo trovate subito d’accordo, così d’accordo che ancora adesso , dopo tre anni, ci scriviamo. Abbiamo tutte e due “una paura da morire di morire”, eppure l’esperienza ci affascina e abbiamo voglia di parlarne. Nessuno è mai tornato indietro per raccontarci com’è, che cosa succede esattamente quando il cuore smette di battere, quando il sangue nelle vene non pulsa più, l’encefalogramma si appiattisce e il respiro si ferma. Nessuno è in grado di descrivere la fine. E ciò che non può essere descritto non esiste.
«Quindi la morte non esiste?».
«Esiste, ma puoi solo immaginarla».
«Devi esercitarti a pensare il mondo senza di te. Sei una scrittrice no?».
Immaginare il mondo senza di me, questo è il compito che mi ha assegnato Esther. Confesso che ci ho provato. Non è facile, i risultati sono modesti per ora, ma è un buon esercizio, riduce la smania di protagonismo che spesso ci attanaglia, l’ambizione sfrenata, la ricerca ansiosa del successo, così comune ormai, che nemmeno più ce ne rendiamo conto.
“Il mondo non finisce con te, bella mia”, ho detto a me stessa, e mi sono sentita, chissà perché, subito più leggera. Meno responsabile di come sta andando a rotoli l’equilibrio globale, ma anche meno attaccata alle mie piccole disillusioni personali, alle paure ricorrenti, alla difficoltà esistenziale di dover attraversare un tempo che è aspro e faticoso, se vivi immersa in una cultura che non dà valore a chi ha molto vissuto. Soprattutto se appartiene al genere femminile.
Mi sono sentita assolta da ogni bassezza e recriminazione, pensando alla morte. Aveva ragione il saggio filosofo Montaigne, nei suoi essays (saggi, ndr). “Non c’è nulla di male nella vita per chi ha ben compreso che la privazione della vita non è un male”. Correva l’anno 1580. Vogliamo provare ad allinearci con questa visione?
© Riproduzione riservata