Con Carlo Ancelotti alla guida del Brasile, tocca il culmine una storia non lunga ma affascinante. Quella dei calciatori e allenatori italiani che hanno giocato, fatto giocare e vinto (tanto) all’estero
“Rigore è quando arbitro fischia”. La leggendaria frase di Vujadin Boskov, allenatore della Sampdoria tra gli anni Ottanta e Novanta, vale assai più di un sorriso. Racchiude una storia: quella dei tanti stranieri, atleti e allenatori, venuti ad arricchire il nostro calcio e spesso a esaltarlo. Era ungherese l’allenatore del “grande Torino”, Erno Erbstein, che guidò la squadra alla vittoria di cinque scudetti prima e dopo la Seconda guerra mondiale, mentre l’argentino-francese Helenio Herrera fu il ‘mago’ dell’Inter negli anni Sessanta. Nils Liedholm costituì, con Gren e Nordhal, il trio di campioni svedesi che deliziò il Milan negli anni Cinquanta, poi allenò la Roma dello scudetto nel 1983; il serbo Boskov vinse il titolo con la Sampdoria nel 1991; il portoghese Mourinho ha regalato all’Inter lo storico ‘triplete’ (scudetto, Coppa Italia e Coppa dei Campioni) del 2010. Quanto ai calciatori stranieri che hanno illuminato il nostro campionato, l’elenco diventa sterminato. Basta ricordare (in ordine di epoca) Schiaffino, Sivori, Falcao, Zico, Maradona, Van Basten, Batistuta, i due Ronaldo (il brasiliano e il portoghese), Zidane, Ibrahimovic e Higuain per scoprirsi con gli occhi lucidi. Ma a questa “invasione multicolore”, prima regolata e poi libera, non ha fatto riscontro una altrettanto massiccia esportazione dei talenti nostrani. I primi esempi di calciatori italiani con la valigia risalgono addirittura all’inizio del secolo scorso, ma sono estremamente sporadici. Il futuro allenatore dell’Italia bi-campione del mondo nel 1934 e 1938, Vittorio Pozzo, giocò con gli svizzeri del Grasshopper nel 1905; il genovese Attilio Fresa, squalificato in Italia, si aggregò agli inglesi del Reading per alcuni mesi tra il 1913 e il 1914. Molto tempo dopo, negli anni Settanta, il bomber della Lazio Giorgio Chinaglia si trasferì negli Stati Uniti per militare nei New York Cosmos, inaugurando la moda dei campioni italiani che decidevano di concludere la carriera all’estero. Attratti dagli ingaggi e dalla tranquillità di campionati meno competitivi, si trasferirono oltre confine, tra gli altri, l’attaccante della Juventus Roberto Bettega (in Canada, ai Toronto Raptors), la bandiera della Fiorentina Giancarlo Antognoni (in Svizzera, nel Losanna) e il campione del mondo Marco Tardelli (sempre in Svizzera, nel San Gallo). È negli anni Novanta, però, che il flusso dei calciatori italiani verso i campionati stranieri aumenta, per effetto della liberalizzazione del mercato indotta dalla “sentenza Bosman”. È ormai diventata una scelta di carriera, legata alle offerte economiche e alle opportunità sportive. Gianluca Vialli, attaccante della Sampdoria e poi della Juventus, passa alla squadra londinese del Chelsea diventandone in pochi anni una bandiera. A seguirlo, poco dopo, è il ‘fantasista’ Gianfranco Zola, ex di Napoli e Parma, che si guadagna l’appellativo di “Magic Box” per le sue funamboliche giocate. Il tabù è infranto in tutti i principali campionati europei: nel 1998 Christian Vieri, con la maglia dell’Atletico Madrid, si laurea capocannoniere in Spagna; nel 1997 il difensore Christian Panucci vince la Coppa dei Campioni con il Real Madrid; l’attaccante Ruggero Rizzitelli si fa apprezzare al Bayern Monaco, in Germania; tanti giocano con alterne fortune in Scozia, Portogallo, Olanda. Ma l’avventura più entusiasmante è quella di Totò Schillaci, eroe delle “notti magiche” ai campionati del mondo del 1990, scivolato troppo presto in disparte nel campionato italiano. Nel 1994 sceglie il Giappone e si trasferisce al Jubilo Iwata, tornando cannoniere ed eroe per qualche anno e suscitando un entusiasmo irrefrenabile nei fan del paese del Sol Levante. All’alba del nuovo millennio ogni frontiera è abbattuta: i calciatori italiani raggiungono l’Arabia Saudita, l’Australia, l’Africa, diventano star del soccer in Canada e negli Stati Uniti e conquistano prestigiosi riconoscimenti nei più importanti campionati del mondo. A partire dagli anni Novanta, il fenomeno migratorio riguarda anche gli allenatori: Giovanni Trapattoni, campione d’Italia con la Juventus e l’Inter, conquista il campionato tedesco nel 1997 alla guida del Bayern Monaco; nello stesso anno Fabio Capello, reduce dai successi col Milan, porta il Real Madrid alla vittoria nella Liga spagnola, ripetendosi esattamente dieci anni dopo. Capello e Trapattoni hanno anche ricoperto il ruolo di commissario tecnico di una nazionale straniera: il primo dell’Inghilterra e poi della Russia, il secondo dell’Irlanda. Pioniere, in questo campo, era stato Cesare Maldini, che portò il Paraguay ai mondiali del 2002 in Corea e Giappone. Grazie all’abile direzione tecnica dell’italiano Alberto Zaccheroni, proprio il Giappone conquistò nel 2011 la Coppa d’Asia. Oggi la pattuglia degli allenatori italiani all’estero è nutritissima e molto stimata: si va da Vincenzo Montella, che guida la nazionale turca, a Roberto De Zerbi, che ha “insegnato calcio” a Brighton e poi a Marsiglia. La recente nomina di Carlo Ancelotti a commissario tecnico della Selecao brasiliana è la ciliegina sulla torta. Per uno degli allenatori più titolati di sempre (5 Champions League vinte tra Real Madrid e Milan, oltre alle due da calciatore) suona come una consacrazione: l’incontro fra la tradizione del Brasile e il tocco magico di “Carlinhos”, emblema di un’Italia del calcio ormai pienamente cosmopolita.
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