Gli utenti delle piattaforme davanti ad un bivio. Pagare un abbonamento per un’esperienza senza pubblicità o continuare a usare le piattaforme gratuitamente, acconsentendo però all’uso dei propri dati per annunci personalizzati.
Abbonamenti per Facebook e Instagram
Negli ultimi giorni, milioni di utenti, anche in Italia, si sono trovati di fronte a una “scelta digitale”. Accedendo a Facebook o Instagram, una schermata blocca la consueta navigazione e impone una decisione netta: pagare o acconsentire.
La proposta di Meta Platforms, la società madre dei due social network, è tornata prepotentemente d’attualità in queste settimane, riaccendendo un dibattito cruciale sul modello di business delle grandi piattaforme tecnologiche. La scelta, presentata con il titolo “Controlla se possiamo trattare i tuoi dati per le inserzioni”, non è un tentativo di phishing, ma una strategia precisa con cui l’azienda di Mark Zuckerberg risponde alle crescenti pressioni normative europee. Da un lato, l’opzione di sottoscrivere un abbonamento mensile per eliminare la pubblicità. Dall’altro, la possibilità di continuare a usufruire dei servizi senza costi aggiuntivi, accettando però che le proprie informazioni e attività online vengano utilizzate per ricevere inserzioni pubblicitarie mirate. Una dinamica che trasforma, di fatto, i dati personali in una vera e propria moneta di scambio.
Una mossa dettata dalle leggi europee
La decisione di Meta non è un fulmine a ciel sereno, ma la diretta conseguenza di un braccio di ferro con le istituzioni europee. Il cuore della questione risiede nel Digital Markets Act (DMA), il regolamento europeo sui mercati digitali pensato per arginare lo strapotere delle cosiddette “gatekeeper” (le “grandi aziende tech” ndr.).
Il DMA, insieme al già noto GDPR (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati), impone regole ferree sulla trasparenza e sul consenso degli utenti per il trattamento dei dati personali a fini pubblicitari. Per anni, Meta ha basato il suo modello di business su un patto non scritto. Servizi gratuiti in cambio dei dati degli utenti, fondamentali per vendere pubblicità ultra-profilata. Questo meccanismo è stato messo in discussione dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e dall’European Data Protection Board (EDPB), i quali hanno stabilito che il semplice utilizzo del servizio non equivale a un consenso libero ed esplicito al trattamento dei dati. Di fronte a multe salate, come quella da 200 milioni di euro per la violazione del DMA, Meta ha dovuto correre ai ripari.
La soluzione “paga o acconsenti” è la risposta dell’azienda per cercare di allinearsi alle normative. Offrendo, in questo caso, un’alternativa formale a chi non desidera cedere le proprie informazioni.
Cosa succede se non si paga
Ma concretamente, cosa comporta la scelta? Chi desidera un’esperienza priva di inserzioni pubblicitarie può sottoscrivere un abbonamento. I costi sono stati recentemente rivisti al ribasso, proprio in seguito alle critiche delle autorità di regolamentazione che ritenevano i prezzi iniziali un ostacolo al diritto alla privacy. Attualmente, il servizio costa 5,99 euro al mese per l’accesso via web e 7,99 euro per chi si abbona tramite le app per iOS e Android.
Ogni account aggiuntivo, collegato allo stesso centro gestione, ha un costo ulteriore di 4 o 5 euro. È importante sottolineare che abbonarsi non elimina del tutto i contenuti commerciali: si continueranno a vedere post e messaggi di aziende e creator che si seguono. L’alternativa è non pagare nulla e cliccare su “Usa senza costi aggiuntivi”. Questa opzione, scelta dalla maggioranza degli utenti, implica la concessione a Meta del permesso di utilizzare i dati per mostrare pubblicità personalizzata.
Recentemente, è stata introdotta anche una terza via: un uso gratuito con pubblicità “meno personalizzata”, basata solo su dati generici come età e posizione, ma che include la visione di annunci a schermo intero non “skippabili” (saltabili ndr.). In ogni caso, la decisione presa non è definitiva e può essere modificata in qualsiasi momento dalle impostazioni sulla privacy del proprio account.
La “fame” di dati per addestrare l’Intelligenza Artificiale
La partita dei dati, però, non si gioca esclusivamente sul campo della pubblicità. C’è un’altra ragione, forse ancora più strategica, dietro la spinta di Meta a ottenere il consenso degli utenti, ed è l’addestramento dei suoi modelli di Intelligenza Artificiale. A partire da fine maggio 2025, Meta ha annunciato di voler utilizzare i contenuti pubblici condivisi dagli utenti europei maggiorenni (post, foto, commenti) per addestrare e migliorare i suoi sistemi di IA, come il chatbot Meta AI e il modello linguistico Llama.
Secondo l’azienda, questo processo è fondamentale per rendere l’IA più accurata e capace di comprendere le specificità culturali e linguistiche del continente europeo. Anche in questo caso, la normativa europea (in particolare l’AI Act, il primo regolamento al mondo sull’Intelligenza Artificiale) impone obblighi di trasparenza. Gli utenti, infatti, hanno il diritto di opporsi a questo utilizzo compilando un apposito modulo online. Come sottolineato anche dal Garante per privacy italiano, se l’opposizione viene esercitata tempestivamente, si può impedire l’uso di tutte le informazioni personali per l’addestramento dell’IA di Meta.
Verso un nuovo modello di social network
La strategia di Meta segna un punto di svolta e potrebbe rappresentare la fine dell’era del “tutto gratis” su internet, così come l’abbiamo conosciuta. Anche altre piattaforme, da TikTok a X (ex Twitter), stanno esplorando modelli di abbonamento. E la questione solleva un dilemma fondamentale: la privacy, probabilmente, sta diventando un lusso per pochi, un servizio “premium” che solo alcuni possono permettersi.
Le associazioni per i diritti digitali e le autorità di regolamentazione europee sostengono che il modello “paga o acconsenti” non costituisca una scelta genuinamente libera, poiché pone l’utente di fronte a un ricatto implicito. L’European Data Protection Board, infatti, ha sottolineato la necessità di un’alternativa “equivalente e gratuita” che non implichi una profilazione estesa. Sembra dunque che il braccio di ferro tra Big Tech e regolatori sia tutt’altro che concluso.
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