Diceva Fëdor Dostoevskij che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle condizioni delle sue carceri”. Un’affermazione che trascende i tempi, li attraversa e arriva ai giorni nostri con potente e dolorosa attualità. E l’attualità in Italia è quella di carceri sempre più inabitabili, sempre più incivili e sempre più criminogene. In questo quadro già critico, emerge un sistema penitenziario che, di fronte al cambiamento climatico, mostra tutta la sua fragilità e la sua inadeguatezza.
La variabile climatica è diventata una pena accessoria inflitta ai detenuti, perché l’estate in prigione si trasforma in un girone dantesco.
Come certifica l’ultimo rapporto di Antigone, nelle carceri italiane si vive senza respiro: dei 190 istituti penitenziari presenti nel nostro paese, 152 sono stati costruiti nel secolo scorso. Quando cioè l’efficienza energetica, l’isolamento termico, erano concetti inesistenti: l’edilizia carceraria è un’edilizia scadente, i muri non isolano né dal caldo né dal freddo e paradossalmente sono proprio gli edifici più nuovi quelli dove si soffre di più il caldo. Nelle carceri più nuove, blocchi di cemento che si arroventano al sole, i soffitti non superano i 3 metri, trattengono il calore a livello dei corpi e l’aria circola male.
Come se non bastasse, la ventilazione naturale è spesso compromessa da misure di contenimento. Per ragioni di sicurezza, e cioè per evitare scambi con l’esterno, le finestre sono state coperte con pannelli di plexiglas o griglie metalliche fitte, che lasciano passare la luce ma bloccano l’aria, trasformando le celle in serre roventi.
E il fenomeno è tutt’altro che isolato, l’ultima rilevazione nazionale dell’Osservatorio Antigone, ha riscontrato la metà di queste schermature in circa la metà delle 96 strutture penitenziarie visitate. Nei mesi estivi però la presenza di superfici in plastica esposte al sole contribuisce all’aumento della temperatura all’interno delle celle, dove la circolazione dell’aria è già limitata. Una condizione insostenibile, soprattutto se si considera che i detenuti trascorrono in cella anche 20 ore al giorno.
Negli ultimi anni, complice l’emergenza sanitaria, si è tornati a un regime di “celle chiuse”, in pratica, per oltre il 60% della popolazione carceraria, la cella resta sbarrata per 20 ore su 24.
Ma è la struttura stessa delle celle che rende la permanenza ancora più difficile, perché oltre alle finestre schermate dal plexiglas, si aggiunge un sistema di doppia chiusura della porta: prima l’inferriata, poi il cosiddetto blindo, una lastra di ferro pieno con uno spioncino, che durante la notte viene chiuso, impedendo di fatto qualsiasi ricambio d’aria.
Il nodo irrisolto, da anni, resta però sempre lo stesso: il sovraffollamento. Al 30 aprile 2025, nelle carceri italiane erano recluse 62.445 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Il tasso ufficiale di affollamento è del 121,8%, ma il dato reale supera il 133%, perché almeno 4.500 posti risultano inagibili per lavori o problemi strutturali.
In termini concreti, vuol dire che celle progettate per due persone ne accolgono anche cinque o sei e in molte strutture non si rispettano nemmeno i 3 metri quadrati minimi a testa stabiliti dagli standard europei. E quando manca lo spazio, manca anche l’aria.
Il caldo estremo poi non fa che peggiorare una situazione già esplosiva: aumenta tensioni, conflitti, può scatenare rivolte.
Di fronte a tutto questo, la risposta delle istituzioni è stata l’invio di mille frigoriferi a pozzetto: un gesto vagamente surreale, più dimostrativo che risolutivo, un palliativo che somiglia a un atto di autoassoluzione.
Perché nella quotidianità, l’accesso a beni essenziali come acqua fresca e aria ventilata è tutto fuorché garantito. I ventilatori non sono forniti: devono essere acquistati a proprie spese tramite il cosiddetto “sopravvitto”, ma solo chi ha soldi può permetterselo.
In questa estate rovente, appena trascorsa, le carceri italiane ci raccontano dunque una realtà in cui l’articolo 27 della Costituzione, che vieta pene contrarie al senso di umanità e impone che esse tendano alla rieducazione del condannato, resta un principio tradito, quasi una beffa più che una garanzia.
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