Il decimo album in studio del cantautore romano ne conferma la vena rock e l’apertura personale verso i temi del quotidiano
«Ho sempre pensato che 50 fosse solo un numero, anche in relazione agli anni. Arrivato a questa età importante, in cui, anche inconsciamente, si fa un bilancio, mi sono accorto che non è così: sono cambiato. Poiché il mio bilancio è positivo, visto che faccio la vita che ho sempre sognato, i 50 anni mi hanno dato sinceramente tanta serenità». Poi Fabrizio Moro, che ha tagliato il mezzo secolo nello scorso aprile, scoppia in una risata: «Ma perché mi domandano tutti dei 50 anni?». Meglio allora chiedergli del nuovo disco, quel Non ho paura di niente uscito da poco, a due anni e mezzo di distanza dal precedente EP La mia voce Vol. 2, e nato appena superata «la difficoltà di comporre canzoni nella situazione – causata dal Covid – di mancanza di concerti, che per me sono un riferimento totale, dato che ho sempre scritto in base alle reazioni che immagino di ottenere dal pubblico».
«È stato un disco più difficile di tutti gli altri da portare a termine, perché ciò che mi ha sempre fatto più paura, – la perdita della creatività – mi ha preoccupato più delle volte precedenti. La creatività mi ha permesso di vivere la vita che volevo, perciò l’ho sempre coltivata e protetta, ma stavolta ho avuto più difficoltà a sbloccarne il processo. È successo come sempre con una canzone, stavolta proprio quella del titolo Non ho paura di niente, che ha dato il via alla scrittura di circa 40 brani, tra i quali sono andato a scegliere prima i quattro o cinque più importanti e poi quelli omogenei con questi, fino ad arrivare ai dieci (nove più il bonus Prima di domani incluso solo nell’edizione deluxe, ndr) del disco».
Il decimo album in studio di Moro dura solo una mezz’oretta – «c’è tutto quello che avevo da dire in questo momento» -, ma non lascia insoddisfatti, sa convincere con la sua vena un po’ old style da cantautore rock che lancia slogan e insulti, che parla d’amore e sofferenza, di droga e libertà, che racconta autobiograficamente di Scatole da aprire in solitudine e de “il punto è che non ho capito ancora chi sono”. «Non ho paura di niente è uno slogan che ci dovremmo ripetere ogni giorno, uno stimolo a non farci sopraffare dalle tante paure che ci assalgono, perché non siamo supereroi non toccati da nulla».
Però un titolo così non è quasi provocatorio nella realtà attuale, quando in moltissimi fanno i conti con la paura, specie quella del futuro?
Si tratta di uno sfogo, perché io stesso ho paura di tutto. È il Fabrizio coraggioso che parla al Fabrizio più vigliacco, che esce quando le paure si materializzano. Le paure non si sconfiggono se non momentaneamente, poi ritornano, è come un’altalena. Abbiamo dentro di noi un gigante alimentato dai successi e un nano che vive di sconfitte, e c’è bisogno di tutti e due per trovare un equilibrio. Sempre.
Ricordo a me stesso di non aver paura soprattutto quando si affaccia un nuovo lavoro, una nuova sfida. Succede a tutti in questa società, nelle nostre vite sempre soggette a competizioni, a traguardi assolutamente da raggiungere. Nel mio mestiere non sopporto l’essere sempre sotto giudizio, mi deprime, mi ha dato instabilità, anche se è il prezzo da pagare per fare la vita che ami.
Come si colloca oggi nel panorama musicale italiano?
Come tutti i cantautori della mia generazione, quella di mezzo. Noi non abbiamo avuto, come quelli più anziani, la possibilità di creare un pacchetto di canzoni enorme e non siamo neanche così giovani da poterci affidare alle nuove linee di comunicazione. La musica gratuita ha fatto sì che l’ultima generazione abbia perso interesse nei suoi confronti. I ragazzi hanno certamente un approccio diverso da noi che marinavamo la scuola per essere i primi a comprare il nuovo Lp dei nostri preferiti. Questo mi mette un po’ a disagio. Così come non mi piace la ruota claustrofobica che le multinazionali hanno creato insieme alle piattaforme, che fa sempre rincorrere i numeri, inseguire i numeri, i numeri…
Come affronta lo scrivere canzoni?
Credo che per fare le cose in un certo modo bisogna avere un po’ di pazienza. Tante volte ho scritto pezzi che, fatti con chitarra e voce, sembravano dei capolavori e poi li andavo ad arrangiare e cambiava tutto. Sembravano poter dare una svolta alla mia vita, ma non era così. Questo approccio a stare calmi lo uso con ogni canzone, ma noto che in genere non si usa più. Non è una critica, ognuno lavora come meglio crede, però io ho bisogno di prendermi del tempo.
E Moro continua l’intervista confessando che «ci sono cose che mi pento di aver fatto, anche qualche canzone, perché hanno avuto un riflesso negativo sulla mia vita», che «fare cinema (ha curato la regia, insieme con Alessio De Leonardis – già aiuto regista dei fratelli Taviani – dei due film Ghiaccio e Martedì e Venerdì, ndr) è stata la mia ancora di salvezza nel periodo senza musica del Covid» e che, per ritornare al Festival di Sanremo, che vinse nel 2018 con Ermal Meta e la canzone Non mi avete fatto niente, «dovrei trovare un’idea per comunicare la mia visione del mondo, anche se ormai è cambiato, è uno show televisivo e non basta una bella canzone.
TUTTI GLI ARTICOLI DI LEONARDO CARABINI
© Riproduzione riservata
