Tra crack finanziari, epidemie e carestie, il Secolo Nero segnò la fine di un mondo. Ma da quel trauma nacque una società nuova che aprì le porte al Rinascimento
I prodromi della crisi economica iniziarono verso la fine del XIII secolo, durante il quale l’economia europea aveva conosciuto un’espansione formidabile: le città italiane – Firenze, Genova, Venezia – erano diventate potenze commerciali che collegavano l’Oriente con il Nord Europa. I mercanti-banchieri fiorentini, in particolare, avevano costruito imperi finanziari prestando denaro a re e papi. Le famiglie dei Bardi e dei Peruzzi erano i Lehman Brothers del Medioevo, con filiali da Londra a Cipro.
Ma fu intorno al 1343 che una serie di grossi prestiti, concessi a sovrani europei per le guerre e mai restituiti, provocò fallimenti a catena, svendite di beni e passaggi di mano delle ricchezze. I Peruzzi e i Bardi trascinarono con sé decine di famiglie e migliaia di risparmiatori. Le botteghe chiudevano, i cantieri si fermavano, la fiducia svaniva. Il commercio rallentò e la moneta iniziò a svalutarsi.
A questo si sovrappose la crisi agricola. Il clima europeo stava cambiando: dopo secoli di temperature miti, si entrò nella fase della “piccola era glaciale”. Le estati divennero più fresche e piovose, i raccolti meno abbondanti. Le popolazioni urbane, cresciute vertiginosamente nei secoli precedenti, si trovarono così esposte alla fame. E all’epidemia che sarebbe giunta da Oriente.
La Peste nera piombò sull’Europa, seguendo le rotte commerciali che per secoli avevano trasportato spezie, seta e porcellana. Il bacillo Yersinia pestis – che solo nel 1894 sarebbe stato identificato – viveva nelle pulci dei ratti, ospiti onnipresenti nelle città medievali.
L’epidemia esplose probabilmente negli altopiani dell’Asia centrale, forse nello Yunnan cinese, intorno al 1330. Di lì seguì la Via della Seta: carovane di mercanti, eserciti mongoli in movimento, navi che facevano tappa nei porti del Mar Nero. Nel 1346 la peste raggiunse Caffa, colonia genovese in Crimea, dove i Mongoli assedianti – già decimati dal morbo – catapultarono cadaveri infetti oltre le mura. Un’arma batteriologica ante litteram.
Le navi genovesi in fuga portarono la peste nel Mediterraneo. Nell’ottobre 1347 dodici galee attraccarono a Messina: a bordo, equipaggi moribondi e stive infestate da ratti. La Morte Nera si diffuse in Sicilia, poi risalì la penisola: Pisa, Genova, Venezia caddero nel 1348. Boccaccio la vide arrivare a Firenze nella primavera di quell’anno: “pervenne la mortifera pestilenza”, scriverà, “la quale… per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali”.
Dall’Italia raggiunse la Francia meridionale nell’estate 1348, Parigi in autunno, la Spagna e l’Inghilterra entro l’anno. Nel 1349 toccò alla Germania, ai Paesi Bassi, all’Irlanda. Nel 1350 fu la volta di Scandinavia e Russia. In tre anni aveva coperto un intero continente.
La malattia si presentava sotto forma di bubboni grandi come uova, soprattutto all’inguine e sotto le ascelle, scuri e dolorosi. Seguivano febbre altissima, delirio, macchie nerastre sulla pelle. La mortalità si aggirava attorno al 60-70%.
Boccaccio, nell’introduzione al Decameron, così descrive la rapidità del contagio: “non altrimenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate”.
Le città medievali, con le strade strette e sporche, le case affollate, l’assenza di fognature, erano trappole. A Firenze morivano ottocento persone al giorno: si scavavano fosse comuni dove i corpi venivano accatastati “a lasagna”, come scrive Boccaccio. Le famiglie si disgregavano: padri abbandonavano figli, mogli fuggivano dai mariti malati. Il tessuto sociale si lacerava sotto il peso della paura.
Quando la prima ondata si esaurì, verso il 1353, l’Europa aveva perso circa un terzo della sua popolazione: 25 milioni di morti su 75 milioni di abitanti.
Firenze passò da 120mila a forse 50mila anime. Venezia da 110mila a 60mila. Intere campagne si spopolarono, i villaggi scomparvero.
E non fu un evento isolato: la peste tornò a ondate ricorrenti – 1361-1363, 1369, 1374-1375 – impedendo la ripresa demografica per generazioni. L’Europa non avrebbe recuperato i livelli di popolazione pre-peste fino al Cinquecento inoltrato.
Eppure, per i sopravvissuti, da questa catastrofe emerse un miglioramento delle condizioni di vita. Con un terzo della popolazione scomparsa, c’era più terra coltivabile per ogni contadino, più cibo disponibile, più domanda di lavoro e meno braccia per soddisfarla. I salari esplosero. Un bracciante agricolo che prima dell’epidemia lavorava per la sussistenza, dopo il 1350 poteva pretendere il doppio, a volte il triplo. I signori terrieri e i governi cittadini tentarono, inutilmente, di bloccare questa tendenza con leggi suntuarie e tetti salariali.
Per la prima volta, artigiani e contadini potevano permettersi lussi prima impensabili. Carne sulla tavola più spesso, stoffe migliori, persino qualche gioiello o accessorio colorato. Era l’inizio della mobilità sociale e dell’era borghese.
Chi era scampato alla morte voleva vivere il presente e godere dei piaceri. Non a caso, fiorì un’arte più sensuale, meno astratta: il gotico internazionale con i suoi colori brillanti e le sue dame eleganti, i primi ritratti realistici, una letteratura più terrena e borghese. Il Decameron stesso, con le sue novelle licenziose e il suo realismo scanzonato, è figlio di questo nuovo spirito. I dieci giovani narratori non pregano né fanno penitenza: raccontano storie d’amore, beffe, tradimenti. È il trionfo della vita sulla morte, il monumento di un’epoca che, dopo aver toccato il fondo, risalì verso la luce. Di lì a breve, da Firenze, sarebbe nata una nuova era: il Rinascimento.
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