Dalle ballate di Bing Crosby ai film di Hollywood: ecco perchè l’iconografia del 25 dicembre innevato diventa un anacronismo per la Generazione Z
L’immaginario collettivo del Natale rimanda da sempre ad un paesaggio magico, tra fiocchi che scendono silenziosi e tetti ricoperti da un manto candido. Nulla di strano, se si pensa che le radici di questa iconografia affondano nella realtà meteorologica delle regioni che hanno plasmato le stesse tradizioni natalizie. Nel Nord Europa, patria di Santa Claus e dell’abete natalizio, trovare la neve il 25 dicembre è (almeno fino ad oggi) un evento normale, quanto trovare il panettone sulle tavole italiane. Il mito ha viaggiato con i milioni di immigrati europei che si sono spostati poi negli Stati Uniti, in Australia e in Sud America, portando con loro questa immagine del Natale innevato, che ha trasformato un dato climatico locale in un simbolo universale. Così, paradossalmente, anche chi vive a Sydney o a Buenos Aires, dove dicembre significa estate piena, immagina il Natale sotto la neve. Ma sono stati la letteratura, la musica e soprattutto il cinema a cristallizzare definitivamente questa visione nell’immaginario collettivo. Charles Dickens, quando nel 1843 pubblicò Canto di Natale, dipinse le sue scene più memorabili su uno sfondo di Londra innevata, creando un modello narrativo che ancora oggi influenza racconti e pellicole. Poi è arrivata White Christmas di Bing Crosby (1942), diventata il singolo più venduto della storia, che ha ispirato l’omonimo film del 1954 ambientato in un Vermont coperto di neve. Hollywood ha continuato a costruire questo immaginario con pellicole come La vita è meravigliosa di Frank Capra (1946), dove la neve che cade su Bedford Falls diventa parte integrante del finale, o Miracolo nella 34ª strada del 1947, che si conclude proprio con i fiocchi che imbiancano New York.
C’è però una ragione più profonda per cui questa associazione funziona così bene. La neve copre e trasforma il paesaggio in qualcosa di diverso: magico, silenzioso, purificato. In assonanza con il significato della nascita di Gesù, che parla di rinnovamento e purezza. Il bianco che copre tutto diventa così metafora visiva di un nuovo inizio. E c’è anche l’aspetto della meraviglia: un paesaggio innevato conserva sempre qualcosa di magico e fiabesco, quello stesso senso di incanto che tutti vogliono ritrovare, o regalare, durante le feste.
Da qualche tempo però la realtà meteorologica ha iniziato a seguire un percorso diverso. Secondo i dati dell’Isac-Cnr, la stagione fredda 2024-2025 si è classificata come la sesta più calda dal 1800, quando sono iniziate le misurazioni sistematiche. L’anomalia termica rispetto alla media è stata di 1,28 gradi, con il Nord Italia che ha registrato gli scarti maggiori. Ma è l’inverno 2023-2024 a detenere il primato, con un’anomalia di 2,19 gradi su scala nazionale. Non si tratta di oscillazioni casuali: l’agenzia Copernicus prevede che il 2025 chiuderà come il secondo o terzo anno più caldo mai registrato, in un ritmo accelerato di cambiamento climatico alimentato dalle emissioni di gas serra.
Dietro questi dati c’è una realtà che tocca la vita di milioni di persone. Sulle montagne, la linea della neve si è spostata verso l’alto di centinaia di metri nel giro di pochi decenni: quello che nevicava a novembre ora cade a gennaio, e solo alle quote più elevate. Le irruzioni di aria fredda prolungata che caratterizzavano la stagione sono diventate brevi episodi isolati, insufficienti a creare quel manto bianco associato alle festività. Questa scarsità o assenza di neve genera negli animi una sensazione sottile ma pervasiva di spaesamento emotivo: la luce che si crea con la neve al suolo, il silenzio ovattato che avvolge città e paesi, persino il piacere di restare al riparo dal freddo in casa. Tutti elementi che creano quella dimensione di raccoglimento e intimità familiare associate profondamente al Natale. Chi conserva memoria di inverni più rigidi avverte questo cambiamento come una perdita che rende le feste meno autentiche rispetto al ricordo. Le tradizioni natalizie affondano le radici proprio nelle condizioni invernali del passato: riunirsi attorno al camino, i menù ricchi di piatti calorici, le bevande calde speziate, persino l’iconografia di Babbo Natale con il suo pesante mantello rosso foderato di pelliccia avevano un senso immediato in un contesto di freddo intenso. Con inverni progressivamente più miti, alcune di queste tradizioni rischiano di apparire anacronistiche, anche se mantengono intatta la loro potenza simbolica e affettiva.
Per i bambini di oggi, invece, il Natale senza neve sta diventando la norma. Si sta così costruendo una nuova memoria emotiva delle festività, slegata dal paesaggio nordico ma più vicina a una verità storica spesso dimenticata. Il Natale cristiano celebra la nascita di Gesù in una capanna di Betlemme senza neve, che non appare in nessuna rappresentazione tradizionale del presepio. La prova che secoli di tradizione hanno sovrapposto elementi climatici specifici a una festività che, nella sua origine, non aveva alcun legame con l’inverno rigido.
Il Natale presente offre così l’opportunità di riscoprire le dimensioni più essenziali della celebrazione, meno legate agli aspetti esteriori e più centrate sul profondo significato spirituale. Ma è anche la metafora di una transizione più ampia che il pianeta sta vivendo. Forse, questo cambiamento invita a riscoprire cosa rende davvero speciale il Natale: non il freddo pungente, ma il calore delle relazioni umane e la profondità di un messaggio di pace che attraversa secoli e latitudini.
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