«Io non ci voglio andare in pensione. Né adesso né mai. Io voglio smettere di lavorare quando lo decido io. Io non mi ci vedo seduto sulla panchina a leggere quattrocento giornali scaricati da internet. Io non sono nemmeno il tipo che gioca a burraco o a boccette. Sai che cosa me ne frega di giocare a me? Giochino i bambini. Io a riposarmi ci andrò coi piedi in avanti. Avete capito? Prima del sonno eterno voglio lavorare, andare in ufficio, tornare dall’ufficio, non voglio una vita che mi si squaglia in mano, non voglio giornate vuote. Non voglio attaccare discorso con gli sconosciuti, dire “guarda che bel bambino” o “guarda che bel cagnolino”, tanto per sentire la mia voce, che se sto in casa sto zitto e mi dimentico come si fa a comunicare con gli altri esseri umani. Non pagatemi più se avete deciso che sono arrivato a scadenza, ma non impeditemi di lavorare. Trovatemi uno sgabuzzino con un sedia, affidatemi un compito qualsiasi. Non sapete che farvene della mia esperienza? Benissimo. Trovatemi un posto nel reparto innovazione. Affiancatemi un ventenne tecnologicamente bravissimo e intellettualmente primitivo, formeremo una coppia mitica. Progetteremo strategie che hanno i piedi nel passato e lo sguardo nel futuro. Sarà un vantaggio per tutta l’azienda. Non ci credete? Provatemi! Ho 65 anni. Lavoro da quando ne avevo 22. Sono in buona salute. Ho davanti, secondo le tabelle sull’aspettativa di vita, minimo altri vent’anni. Forse anche qualcosina di più, se continuo a correre con regolarità; gioco a tennis ed evito i fiori di zucca fritti. Che cosa ne devo fare di questo gruzzolo di tempo regalato? Lasciarlo vuoto? Dedicarlo a che cosa? Voi non dovete usare i giovani per fare le scarpe ai vecchi, dovete metterli nella condizione di imparare qualcosa, dai vecchi, e di insegnare qualcosa, ai vecchi. È un patto reciproco, non una guerra generazionale».
Queste sono le parole di Piero.
Chiamiamolo Piero, visto che non vuole comparire: è un manager ben piazzato in una multinazionale. È già da qualche anno che si agita pensando alla pensione. È un fiume in piena, difficile arginarlo quando parte con i suoi comizi contro la rottamazione di chi ha molto vissuto e molto prodotto pensiero.
La sua battaglia è la più impopolare: vorrebbe alzare l’età della pensione. Gli ho sconsigliato l’impresa. Lo slogan che mi ha orgogliosamente proposto era: “Finché c’è vita ci sia lavoro”. Complimenti!
Vuoi farti fischiare da tutto il mondo? È come se per la campagna delle regionali in Campania si scegliesse come slogan “Maradona era una pippa” (il paragone è di Crozza, un genio). Uno slogan inopportuno, quello di Piero. È inopportuno lottare per ritardare l’età pensionabile, chi ha ancora voglia di lavorare è in genere un privilegiato, una privilegiata.
Ha un lavoro interessante, non usurante né faticoso.
Una ipotetica collega di Piero, chiamiamola Esther, per svolgere mansioni analoghe (è anche lei una dirigente) guadagna il 25% in meno del collega maschio.
Interrogata sulla pensione, mi ha detto: «Ci andrei domani mattina in pensione, non vedo l’ora di non avere scadenze, di poter poltrire, di poter leggere a letto finché mi va, al mattino, perché alla sera mi si chiudono gli occhi. Non vedo l’ora di essere libera, di non dover più sprecare un singolo minuto della giornata che mi si stende davanti per riunioni superflue, convocate al solo scopo di misurarsi l’ego con l’ego degli altri. Sono felice di non essere più costretta ad ascoltare vecchi tromboni con la testa piena di stracci soltanto perché mi sono superiori nella complessa gerarchia dei poteri. Sono felice di non dover più sopportare l’opportunismo armato di certi colleghi più giovani che ti lastricano di complimenti e intanto aspettano che muori. Mi pare una prospettiva meravigliosa frequentare soltanto le persone a cui voglio bene, le persone da cui ho qualcosa da imparare, le persone che mi vogliono bene, le persone sincere e le persone generose. Lo so che non è facile trovarne, ma avrò un sacco di tempo libero per conoscere gente nuova, rivedere vecchie amiche, sperimentare situazioni. D’accordo, ho 64 anni, fra poco ne farò 65, so benissimo che dovrei ritirarmi in una dignitosa rassegnazione, invece mi sento più viva che mai. Devo lavorare ancora poco meno di tre anni. Ma il tempo passa in fretta, soprattutto quando sei vecchia o quasi vecchia. C’è una accelerazione bestiale. Questi ultimi anni sotto padrone dureranno poche settimane, ne sono certa. E poi viaggerò, andrò al cinema, dipingerò le pareti della cucina di un tenue color mostarda, risistemerò la libreria che è un lavoraccio ma lo farò adagio, ascoltando Mozart da Spotify o qualche vecchio vinile dei Led Zeppelin. Sarà meraviglioso. Spero soltanto che duri. Durerà?».
Non ho saputo rispondere. O forse non ho voluto.
Non ho voluto mentirle. Avrei dovuto dirle “certo che durerà tesoro. Noi boomers siamo eterni. Siamo una forza, noi nate fra il 1946 e il 1964. Ma non abbiamo ancora sconfitto la morte”.
Tu comunque, cara Esther, sei riuscita in un compito minore: valorizzare gli anni della pensione.
© Riproduzione riservata
