(Adnkronos) – L’ex Ilva è ai titoli di coda. È il ferale giudizio che, alla vigilia del nuovo round governo-sindacati a Palazzo Chigi sul dossier, arriva dal palco della relazione annuale sull’industria siderurgica italiana dal numero uno di Federacciai, Antonio Gozzi. La produzione arranca, la cassa integrazione tocca le 4.500 unità, la gara sembra essere al palo, i rapporti tra Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria e le tute blu iniziano a inasprirsi, sul piano industriale l’orizzonte è nebuloso. Tutti – lavoratori e imprenditori – chiedono certezze, risposte. E le chiedono all’esecutivo, che oggi, al tavolo previsto nel tardo pomeriggio, dovrebbe illustrare alle tute blu cosa intende fare, sia per la trattativa in corso con i soggetti interessati, sia per la riconversione industriale e l’occupazione, come ha assicurato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, pochi giorni fa. A Taranto “c’è un’impossibilità di fare industria siderurgica”, ha affermato Gozzi, sottolineando che la situazione dell’Ilva “è grave e difficile: nessun operatore siderurgico italiano o straniero “si è presentato all’asta, siamo ai titoli di coda”. E questo è un problema non solo per la tenuta sociale, dato che l’Ilva, nel complesso, cuba circa 10mila lavoratori (solo diretti), ma anche sul fronte della competitività: “Tutto quello che non verrà prodotto a Taranto rischia di essere comprato all’estero” ha ammonito infatti il presidente degli acciaieri italiani. È urgente quindi “ricostruire le condizioni abilitanti”, anche perché un salvataggio in extremis “porterebbe a un ridimensionamento sostanziale”. Quindi intanto, ha messo in fila, “capire se Taranto e i tarantini vogliono la siderurgia, ovviamente decarbonizzata”, e poi attenzionare il prezzo del gas e dell’energia elettrica, facendo “accordi con Eni”. Questo secondo punto è fondamentale, perché il gap con il resto d’Europa è molto profondo. Infine, il piano industriale: “Non spetta al governo”, ha ricordato Gozzi, esortando invece l’esecutivo a fare il suo. Ossia: porre le basi “perché si faccia industria”.
Anche le tute blu pretendono risposte, sia sul fronte produttivo che su quello occupazionale, e le attendono nell’incontro di oggi. Il piano industriale che i commissari straordinari di Acciaierie d’Italia hanno elaborato sembra appeso a un filo: prevede quattro forni elettrici, tre a Taranto e uno a Genova e altri quattro impianti per i pre-ridotti. Il problema di dove fare il polo Dri non è risolto, perché Taranto – il sindaco Bitetti è stato chiaro – non lo vuole, ma via Veneto ha messo in cassaforte il ‘piano B’ di Gioia Tauro, il cui porto è stato giudicato adatto alla costruzione dell’impianto. Si pone però un problema di fondi, perché l’austerity del Mef ha colpito anche la siderurgia: la scure della spending review imposta dalla manovra 2026 ai ministeri è calata sul ministero dell’Ambiente, con un taglio di quasi 300 milioni per la decarbonizzazione dell’ex Ilva. Una decurtazione, questa, che si somma a quella già operata l’anno scorso e che porterebbe le risorse complessive che servirebbero a Dri Italia per costruire gli impianti funzionali alla produzione di acciaio green a poco più di 600 milioni, contro il miliardo originariamente previsto dall’esecutivo Draghi. Troppi pochi: i tecnici di Mimit e Mase, infatti, sarebbero al lavoro per recuperare questi fondi nei prossimi passaggi parlamentari della finanziaria. Sul versante occupazionale la situazione non è migliore. Anzi. A ottobre è stata confermata la cassa integrazione per 4.500 persone, quasi la metà dei dipendenti (senza considerare i 1.600 di Ilva in amministrazione straordinaria), senza accordo tra azienda e metalmeccanici. I rapporti, peraltro, sono tesi: è di poche settimane fa la denuncia di Fiom, Fim e Uilm sulla gestione della cigs nel sito tarantino unilaterale e poco trasparente sulle rotazioni, respinta al mittente dall’azienda. In tutto questo, c’è il nodo della vendita: Baku si è sfilata, e tra i papabili in corsa è rimasto il fondo americano Bedrock, la cui offerta però prevederebbe una drastica sforbiciata alla forza lavoro e punterebbe a condividere con lo Stato i costi dei nuovi forni elettrici. La trattativa è in corso, il Mimit non si sbottona: è plausibile che i diversi rilanci e aggiustamenti operati dagli americani, così come dagli altri player, siano stati giudicati ancora insufficienti. I sindacati, dal canto loro, continuano a battere il ferro dell’intervento pubblico, unico modo – dicono – per uscire dall’impasse. I precedenti ci sono: Leonardo e Fincantieri, ma anche Eni ed Enel nel campo dell’energia. Ma Urso ha già sbarrato la strada: “E’ incostituzionale”. Di nazionalizzazione, quindi, non se ne parla, ma nemmeno di ‘spezzatino’: anche questo lo aveva chiarito il ministro a ottobre, quando nel corso di un’audizione aveva chiarito che il governo non ha alcuna intenzione di vendere gli asset Ilva separatamente.
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