A parlare è Renata Pintus, direttrice del Settore Pitture murali e stucchi dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, impegnata nella ristrutturazione dell’opera
Artefice del rinnovamento della pittura, imprenditore, e viaggiatore. Circondato da un alone quasi mitico, a Giotto di Bondone (1267 ca.-1337) si attribuiscono aneddoti leggendari, tramandati dalla tradizione e dalla letteratura toscana in tempi vicini alla vita dell’artista, dalla capacità di disegnare un cerchio perfetto a mano libera alle pecore tracciate sulle rocce che ingannarono il grande Cimabue, che lo prese nella sua bottega. Ma Giotto è riconosciuto anche come una figura di riferimento per il suo tempo e per quello a venire, un innovatore che, come scrisse alla fine del Trecento il trattatista Cennino Cennini, “rimutò l’arte di dipingere di greco in latino” e riportò l’arte della pittura “al moderno”, conferendole una compiutezza mai vista prima, grazie alla sua capacità di raffigurare la natura e le emozioni umane con una nuova plasticità e spazialità.
A differenza di molti suoi colleghi contemporanei, Giotto ha viaggiato molto attraverso l’Italia, dalle Alpi al Vesuvio, lasciando in tutta la Penisola opere importanti, artisti ricettivi alle novità del suo linguaggio pittorico e, vero imprenditore di sé stesso, intessendo relazioni con cardinali, ordini religiosi, banchieri, sovrani (come il re di Napoli e Azzone Visconti, signore di Milano) che gli hanno consentito di lavorare nei cantieri più significativi dell’epoca. Tra questi, quello di San Pietro, come riferiscono le fonti e come confermano i documenti. Qui Giotto operò per il cardinale Jacopo Stefaneschi, realizzando una grande pala d’altare dipinta su entrambi i lati (il Trittico Stefaneschi, ora ai Musei Vaticani) e un mosaico per l’atrio della basilica (il Mosaico della Navicella, alterato nel corso dei secoli, di cui rimangono oggi solo due frammenti originali) e, come testimonia Vasari nelle sue biografie di artisti, cinque storie della vita di Cristo nella tribuna di San Pietro. Di questa decorazione murale solo un frammento è sopravvissuto (in collezione privata) per il suo valore testimoniale e devozionale. Molto alterato dal tempo e dalle vicende storiche e conservative, è stato restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ed è ora esposto al pubblico nell’ambito del programma “Caring for Art. Restauri in mostra”.
A raccontare l’importanza di questo frammento è Renata Pintus, direttrice del Settore Pitture murali e stucchi dell’Opificio.
Direttrice, cosa è il Frammento Vaticano?
Si tratta di una porzione di pittura murale, eseguita quindi su intonaco di calce e sabbia, staccata dal supporto murario e inglobata in un massiccio letto di gesso per restituirgli spessore, consistenza e stabilità. È l’unica traccia materiale del ciclo (documentato dalle fonti) dipinto da Giotto nel corso dell’ampio e complesso cantiere che lo vide impegnato a Roma nell’antica Basilica di San Pietro. Un’iscrizione in latino sul retro del frammento testimonia le vicende dopo lo stacco: nel 1610 l’opera fu donata da Pietro Strozzi, canonico della Basilica vaticana e segretario di papa Paolo V, a Matteo Caccini. Quest’ultimo, riconoscendone l’importanza, nel 1625 provvide a farlo ornare e a esporlo al culto, non sappiamo in che luogo. Trattato dunque come una reliquia – anche perché le due figure furono a lungo identificate, erroneamente, come le effigi di San Pietro e San Paolo -, fu adattato a questa nuova funzione devozionale e memoriale, con interventi che ne modificarono completamente la percezione materiale e visiva.
Un lungo restauro
Il restauro è durato due anni, si è concluso nel 2018 ed è stato presentato nel 2019 con una giornata di studi. Questa è l’occasione per far conoscere l’opera e i risultati del restauro al pubblico. Prima del nostro intervento era impossibile fare dei confronti con altre opere di Giotto perché troppo sporco e alterato, non si capiva più nemmeno che fosse originariamente una pittura murale staccata, se ne era perso, diciamo, sia il senso “figurativo” che quello materiale, era diventato una specie di quadretto devozionale a uso privato. Per questo il fondo era stato coperto con una tinta azzurro-verde e successivamente, nei primi decenni del Novecento, con un ulteriore strato nero. In quell’occasione si procedette alla nuova doratura delle aureole a rilievo.
Come avete agito?
L’opera è stata pulita dalle patine organiche (oli, colle, cera) utilizzate a più riprese per fissare e ravvivare i colori, che, alterandosi, avevano conferito al dipinto un tono giallo-brunastro. Sono stati eliminati gli interventi integrativi, mentre sono state lasciate le aureole novecentesche perché quelle originali sono irrimediabilmente perdute. Per la pulitura abbiamo utilizzato diversi metodi, dai solventi alla strumentazione laser.
Avete svolto indagini scientifiche?
Prima del restauro è stata condotta una campagna di indagini scientifiche, non invasive e micro-invasive, finalizzata alla conoscenza della tecnica esecutiva e allo studio del supporto. Le indagini radiografiche hanno riservato una sorpresa: quando il frammento è stato inserito nel gesso sono stati inglobati gli strumenti metallici (lame di coltelli, punteruoli o raschietti) utilizzati per lo stacco, probabilmente oggetti sacralizzati dal contatto con quelle immagini evidentemente oggetto di particolare devozione. Una sofisticata indagine mediante Georadar ha permesso di stabilire che questi elementi si trovano a circa 32-36 mm sotto la superficie del dipinto.
Quali sono i risultati del vostro intervento?
È emersa la stesura pittorica originale, anche ben conservata e di alta qualità. In particolare, gli incarnati sono realizzati con una tecnica tipica di Giotto, attraverso sapienti stesure a piccoli tocchi che, giustapposti, compongono un effetto pittorico finale di estrema naturalezza. Tipicamente giotteschi sono anche i marcati segni neri e rossi con cui sono definiti alcuni dettagli fisionomici dei volti, come il profilo del naso e delle labbra. Si tratta di dati che confermano l’autografia giottesca di questo di questo pezzo. La pulitura ha inoltre portato alla luce il frammento di un’asta che potrebbe riferirsi a un pastorale e quindi a identificare una delle figure in un santo vescovo. Non c’è invece nessun attributo iconografico che li conduca con certezza da San Pietro e San Paolo. Concludendo, il restauro consente ora una lettura corretta dell’opera, anche se frammentaria e menomata dalle complesse vicende conservative, e riconsegna al dibattito e alla storia degli studi un brano giottesco di grande raffinatezza e intenso realismo.
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