Giuseppe Badini aveva undici anni e durante la Seconda guerra mondiale viveva a Pescara. Era uno degli sfollati che cercavano rifugio. Oggi ha 92 anni e apre con noi lo scrigno dei suoi ricordi
«Un giorno vedemmo un corteo di auto blu. Noi bambini, ma anche gli adulti, ci chiedevamo: chissà chi sarà? C’era tanta curiosità, non capivamo. Poi scoprimmo che in una di queste macchine c’erano il re e la regina che scappavano. Ancora oggi mi sembra la scena di un film. Avevo 10 anni, forse 11 anni. Vivevo a Pescara con i miei genitori e la mia sorellina». Inizia così il racconto del periodo dell’infanzia vissuto durante la Seconda guerra mondiale da Giuseppe Batini, che oggi di anni ne ha 92 anni. Un passato da ingegnere civile, come già suo padre. Originario di Palermo, vive a Roma, circondato dall’affetto delle famiglie dei suoi tre figli. Una bella vita lunga e intensa la sua, fatta anche di ricordi che vorrebbe tanto dimenticare. «Avevo preso il tifo e passavo il tempo a guardare fuori dalla finestra che dava sulla piazza di Pianella, uno dei paesi dove eravamo sfollati. Ad un certo punto comparve un soldato tedesco, giovanissimo, disperato. Camminava nella piazza, urlava, cercava acqua e cibo. Improvvisamente si avvicinò un uomo del paese e io pensai: ecco, gli sta dando qualcosa da mangiare. Invece tirò fuori un coltello e glielo conficcò in pancia. Rimasi scioccato e provai pena per quel giovane soldato». Giuseppe fa una pausa, sembra lontano con i pensieri, invece accelera il ritmo del racconto: «Ricordo, come fosse adesso, quando venne bombardata Pescara. Abitavamo al quinto piano di un palazzo. Mio padre mi mandò a comprare il giornale. Feci due gradini per scendere e suonò l’allarme; tornai indietro e vidi i miei genitori alla finestra che guardavano uno stormo di bombardieri che si avvicinava. Scendemmo di corsa nel bunker, per così dire, perché erano solo cantine rinforzate con delle assi di legno. Quando fummo giù, cominciò il finimondo. Quando sembrò tutto finito risalimmo per ripararci nell’ufficio postale di fronte, che aveva un vero rifugio. Mi ricordo che la strada intorno al nostro palazzo era piena di grosse buche e di tante persone che uscivano a loro volta dall’ufficio postale, che in realtà era stato colpito. Vidi un uomo insanguinato con un occhio fuori dall’orbita. Mentre parlo, sto rivedendo quel film. Anche il nostro palazzo era stato colpito da una bomba che ne aveva demolito una parte. L’abbiamo proprio scampata». E riprende: «Da Pescara andammo in una casa a Madonna delle Piane. Ricordo che, durante un bombardamento, mio papà teneva me e mia sorella stretti in un abbraccio per proteggerci. All’improvviso mi sentii sollevare da terra e ci ritrovammo in un’altra stanza della casa, spinti dallo spostamento d’aria di una bomba caduta vicino. Dopo qualche mese fummo sfollati a Cepagatti, in una casa di contadini. Ci andammo su un carrozzino dove stavamo io, mia madre e mia sorella, mentre mio papà ci seguiva in bicicletta. Ci imbattemmo in un gruppo di soldati tedeschi: lasciarono passare noi, ma fermarono mio padre. Ricordo l’angoscia che provavo, che provavamo tutti. Dopo un po’ di tempo lui tornò e ci raccontò quanto era accaduto: il comandante gli aveva messo in mano una pala per testare la sua abilità, ma si rese subito conto che non era pratico di lavori manuali. A quel punto gli chiese quale fosse la sua professione. Mio padre rispose di essere un ingegnere e, per una coincidenza incredibile, anche il comandante lo era. Questa affinità li avvicinò al punto che il tedesco decise di lasciarlo andare. Per mangiare avevamo le tessere, ma devo dire che non soffrimmo mai davvero la fame. A me, però, mancavano i condimenti: un fiasco d’olio, che mia madre faceva durare mesi, era un bene preziosissimo. Dove ci trovavamo non c’erano solo gruppi di tedeschi, ma anche soldati cecoslovacchi, polacchi e uomini delle SS. Quando arrivavano questi ultimi, il terrore calava ovunque: persino gli altri soldati si mettevano in riga, in silenzio. Ricordo che, dopo la loro partenza, un soldato cecoslovacco si avvicinò a me, fece il saluto nazista e scherzando esclamò: “Heil Hitler, kaputt!”». Giuseppe prosegue nel racconto, mentre i ricordi continuano ad affiorare: «Verso la fine della guerra ci trovavamo a Chieti, dove fummo ospiti di un canonico. Dormivamo per terra nella cappella della chiesa, una stanza molto lunga con una grande finestra sul fondo, proprio dalla parte da cui arrivavano le cannonate. Qui accadde un vero miracolo: mia madre insisteva con mio padre perché ci spostassimo in un’altra stanza vicina, temeva che i colpi potessero colpire quella finestra. Alla fine riuscì a convincerlo e, per fortuna, perché pochi giorni dopo le cannonate distrussero proprio la parte dove dormivamo noi». Il flusso dei ricordi si placa e Giuseppe si lascia andare a una risata: «Per passare il tempo avevo imparato da mia madre a lavorare a maglia, non con due ferri ma con quattro. Pensi che facevo i calzini e, dopo attento studio, trovai il sistema di fare il calcagno già formato, senza cuciture!».
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