Viaggio negli anni Ottanta con Johnson Righeira, uno dei più celebri protagonisti della scena musicale italiana.
Hanno firmato tre tormentoni estivi tra i più famosi di sempre: Vamos a la Playa, No tengo dinero e L’estate sta finendo. I due Righeira, Stefano “Johnson” Righi e Stefano “Michael” Rota, dominarono gli anni Ottanta, per poi separarsi nel 1992 e riunirsi, con molto meno successo, tra il 1999 e il 2016. Da allora il solo Johnson ha continuato l’attività musicale, che recentemente l’ha portato sul palco con Jovanotti, all’ultimo Sanremo di fianco ai Coma_Cose e in tour a cantare anche il suo ultimo singolo Chi troppo lavora (non fa l’amore).
Il suo brano è un po’ il contrario di quello sanremese di Adriano Celentano, che diceva “Chi non lavora non fa l’amore…”
Assolutamente, ma ci sono varie ispirazioni dentro. La prima è la mia proverbiale propensione all’essere scansafatiche, quindi è un po’ autobiografico. Poi è anche una citazione del monumento di Ugo Nespolo sul lungomare di San Benedetto del Tronto Lavorare lavorare lavorare preferisco il rumore del mare, a sua volta ispirato a una lirica di Dino Campana, un poeta troppo poco noto. Poi sì c’è ovviamente il gioco con la canzone di Celentano, che uscì sollevando polemiche perché, in un periodo di lotte operaie, sembrava un invito al crumiraggio. In modo diametralmente opposto, la mia canzone è un invito a lavorare il giusto, essere pagati il giusto e lavorare tutti. E di avere tempo per fare l’amore o qualsiasi altra cosa ognuno voglia fare al di là del lavoro. È un invito alla vita, a una vita un po’ più slow.
Aveva tutto per diventare un tormentone, ma esistono ancora i tormentoni estivi oppure la musica è diventata tutta “fluida”, ogni canzone è facile facile, usa e getta?
Innanzitutto, una canzone diventa un tormentone quando ha una diffusione capillare, specie tramite i network radiofonici. Il mio singolo avrebbe potuto diventarlo, perché i ragazzi ai concerti mi urlano “dai Johnson che spacca”, lo cantano e lo ballano insieme, ma è stato un po’ dimenticato. Però il tormentone è una roba seria, ti deve inchiodare, non ti deve mollare più. Io ho avuto questo enorme privilegio di fare due o tre pezzi che ancora adesso si ascoltano e non accennano a scomparire. Penso che solo in quel caso si può parlare veramente di tormentoni, che non sono affatto musica fluida.
Lei è stato uno dei giganti musicali degli Anni ’80. Quali pensa siano stati i cambiamenti determinanti nel modo di pensare alla musica da allora a oggi?
Innanzitutto, la scomparsa del supporto, una cosa brutta, perché col supporto fonografico la musica aveva una sorta di necessità. Era qualcosa di concreto: c’era un oggetto che la conteneva. Adesso c’è il telefonino, ma uno smartphone non contiene solo musica, contiene tutto. E contiene tutta la musica, mentre un disco, un Lp, un cd, contiene la musica che uno ha scelto. Era quasi un feticcio. L’altro cambiamento è che le piattaforme di streaming hanno rivoluzionato il modo di fruire la musica e, soprattutto, che tutto questo ha fatto sì che i cantanti non guadagnano più niente. Per guadagnare dagli streaming devi fare dei numeri che pochissimi al mondo fanno.
Della situazione musicale italiana di oggi cosa pensa?
Ogni periodo ha la sua musica. Credo però che oggi non sia un periodo in cui sta succedendo qualcosa. Ogni musica deriva da qualcos’altro, non c’è una sintesi nuova, che dia l’impressione di essere veramente innovativa. C’è fondamentalmente della minestra riscaldata. La trap deriva dal rap, nel pop e nella dance ci sono un sacco di citazioni, anche degli Anni ’80, da cui non riusciamo a liberarci. Cosa che a me peraltro non dispiace, essendo stato uno degli artefici di quei paradigmi. In Italia non trovo che ci sia un granché, anche se succedono delle cose con dei gruppi nuovi che stanno uscendo. Siamo in una fase di passaggio, in attesa che succeda qualcosa che scombini un po’ le carte. Non necessariamente qualcosa di assolutamente nuovo, perché è stato fatto talmente tanto nella musica che produrre qualcosa di veramente nuovo, non dico sia impossibile, ma certo è molto molto difficile.
In un periodo drammatico come quello attuale, non sono pochi quelli che considerano l’ironia e il sarcasmo decisamente fuori luogo. Cosa direbbe loro?
L’ironia in Italia non ha mai pagato. Cito sempre Freak Antoni, che era un maestro dell’ironia e alla fine è stato costretto a cantare. Non c’è gusto in Italia a essere intelligenti. Perché con gli Skiantos non è stato mai effettivamente apprezzato, né in vita né dopo, benché abbiano fatto delle cose veramente straordinarie, grazie alla loro ironia demenziale. Io sono ironico, perché lo sono io, perché non mi rassegno. E perché l’ironia mi permette di prendere tutto – chiaramente fino a un certo punto, ma il più possibile – con una giusta dose di leggerezza, che è anche comune alla mia anima pop, warholiana. Andy Warhol prendeva la vita con leggerezza, che non era superficialità, ma era un’analisi diversa di quanto accadeva.
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