Il Cnr avverte: con il calo delle nascite gli atenei rischiano di perdere un quinto delle matricole nei prossimi vent’anni
La quinta Relazione sulla ricerca e l’innovazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha dedicato un intero capitolo alle conseguenze della denatalità sul futuro dellle università italiane. Il documento offre un parallelo tra un presente, ancora caratterizzato da una crescita delle immatricolazioni. E un futuro non così remoto in cui questa tendenza si invertirà bruscamente. Guardando ai dati storici dei nati tra il 1982 e il 2021 e incrociandoli con le iscrizioni universitarie dei diciannovenni, emerge che stiamo vivendo gli ultimi anni di espansione. Il picco dovrebbe arrivare nell’anno accademico 2027-2028, quando si manifesteranno gli effetti dell’ultimo sussulto di natalità registrato nel 2008.
I numeri della crisi demografica universitaria
Secondo le proiezioni, confrontando il 2041 con il 2023, ci saranno oltre 512mila giovani in meno in età universitaria. Si tratta di un crollo del 22,1%, particolarmente accentuato tra i diciottenni, dove raggiunge il 26,2%, per poi attenuarsi leggermente fino ai ventun anni, fermandosi comunque al 18,4%. Considerando che quasi il 90% degli studenti universitari italiani ha tra i 18 e i 21 anni, mentre le fasce d’età superiori rappresentano porzioni sempre più marginali, l’impatto sulla popolazione studentesca complessiva sarà devastante. Applicando questi cali alla struttura attuale, gli atenei italiani potrebbero trovarsi con 400mila iscritti in meno, una flessione del 20,6% che si tradurrebbe anche in una perdita secca di circa 480 milioni di euro in tasse universitarie.
Il Sud paga il prezzo più alto del calo delle nascite
Il Meridione si prepara a subire le conseguenze più pesanti della denatalità. Alcune regioni, Molise, Basilicata, Puglia e Sardegna, potrebbero veder diminuire le proprie matricole fino al 30%, contro il 18,6% del Nord e il 19,5% del Centro. La ragione di questo divario risiede nella scarsa capacità di questi atenei di attrarre studenti da altre zone del Paese. Mentre le università settentrionali e centrali continuano a richiamare giovani da tutta Italia, molte realtà meridionali faticano a intercettare flussi migratori studenteschi, limitandosi a servire il proprio territorio di riferimento. Quando questo territorio si svuota, l’effetto diventa moltiplicato. Non tutti gli atenei affronteranno questa sfida nello stesso momento. Alcune università cominceranno a registrare cali significativi già nei prossimi anni, mentre altre potranno godere di una tregua fino alla fine del decennio successivo. Questa differenza temporale potrebbe rivelarsi cruciale: chi avrà più tempo a disposizione potrà pianificare strategie di adattamento, rivedere l’offerta formativa e cercare nuove fonti di iscritti. Chi invece si troverà improvvisamente con aule semivuote dovrà gestire un’emergenza.
Possibili vie d’uscita: internazionalizzazione e formazione permanente
Il Cnr non si limita a fotografare il problema della denatalità, ma prova a indicare alcune vie percorribili. La prima passa dall’attirare più studenti stranieri, soprattutto dai Paesi del Mediterraneo e dell’Europa orientale. Serve però un cambio di passo nell’offerta di corsi in inglese, nei servizi di accoglienza e nella promozione all’estero. Un’altra leva potrebbe essere l’aumento del tasso di passaggio dalla scuola all’università. Attualmente, l’Italia è sotto la media europea per percentuale di diplomati che proseguono gli studi. Se si portasse questa quota ai livelli comunitari, il calo delle immatricolazioni si dimezzerebbe, fermandosi al 10% invece che al 20,6%. Significherebbe “salvare” circa 200mila iscritti e ridurre le perdite finanziarie in modo sostanziale. Infine, c’è la strada della formazione permanente. Anche ridisegnare l’offerta universitaria per intercettare le esigenze di aggiornamento e riqualificazione professionale degli adulti potrebbe aprire nuovi bacini di utenza. In un mercato del lavoro in continua trasformazione, dove competenze acquisite dieci anni fa rischiano di diventare obsolete, gli atenei potrebbero proporsi come centri di apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita.
La denatalità riguarda tutta la formazione scolastica
Queste proposte non sono nuove. Negli ultimi anni sono comparse regolarmente nei programmi dei vari governi che si sono succeduti, indipendentemente dal colore politico. Eppure, troppo spesso sono rimaste confinate nei documenti ufficiali, senza tradursi in azioni concrete e durature. Ora però il tempo stringe. Il 2028-29, quando comincerà il declino delle immatricolazioni, non è lontano. E servono anni per costruire una strategia efficace di internazionalizzazione o per rimodulare un’intera offerta formativa. La denatalità che colpirà le università italiane non è un problema isolato, ma il sintomo di una questione più ampia che attraversa l’intera società. Dopo le scuole elementari che chiudono per mancanza di bambini, dovremmo prepararci a immaginare atenei che ridimensionano la propria offerta, accorpano dipartimenti o chiudono sedi periferiche.
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