Quarantacinque anni fa, dal disagio di un’anima, nasceva il capolavoro di Scorsese che ha ridefinito il cinema americano
Il 14 novembre 1980 nelle sale di New York debuttava Toro Scatenato. Non un film sulla boxe, ma un’opera che avrebbe cambiato per sempre il modo di fare cinema. La storia di come il capolavoro – interamente girato in bianco e nero – vide la luce è ormai leggenda. Quando Robert De Niro propose a Scorsese di realizzare un film su Jake LaMotta, pugile italo americano del Bronx e personaggio assai discusso, il regista, oggi 83enne, rifiutò seccamente. Odiava lo sport, la boxe non lo interessava minimamente. E poi c’era già stato Rocky, il film di Sylvester Stallone che aveva fatto incetta di Oscar pochi anni prima. Un altro film su un pugile italoamericano che cercava il riscatto dalla povertà era un’idea già vista.
La svolta
Ma nel 1978 qualcosa cambiò. Scorsese era tallonato dalla tossicodipendenza, andò in overdose e per poco non gli fu fatale. De Niro lo andò a trovare in ospedale e qualcosa scattò nella testa del regista quando l’amico gli chiese ancora una volta di leggere quella storia, di andare oltre l’apparente semplicità della cronaca di un pugile finito. Scorsese pensò che sarebbe stato forse il suo ultimo film e inquadrò improvvisamente il vero tema: la redenzione, la lotta contro se stessi, l’autodistruzione che quella storia recava con sé. Decise di dedicarcisi anima e corpo creando un’opera che ha saputo resistere all’evoluzione del linguaggio cinematografico. Un film che rimane attuale proprio perché non parla solo di boxe, ma dell’essere umano nella sua essenza più cruda e contraddittoria.
Il contesto di un’epoca
Con Toro Scatenato siamo alla fine degli anni Settanta, quando il cinema era ancora il protagonista indiscusso delle conversazioni culturali e politiche. Quegli anni videro l’uscita di capolavori: “Apocalypse Now”, “Animal House”, “Stati di allucinazione”, “Alien”. Ogni film si presentava come un’opera che ridefiniva tutto quanto l’aveva preceduta. Ma Scorsese, in quel momento, doveva fare i conti con un sistema che voleva liberarsi di lui, tornare alla normalità, eliminare chi creava problemi e offriva il cattivo esempio. Il flop di “New York, New York” aveva quasi distrutto la sua carriera. Si raccontava dei vassoi di cocaina che giravano sul set, di una produzione fuori controllo. Hollywood voleva voltare pagina, ma arrivò “Toro Scatenato”, nato alla fine di una profonda crisi esistenziale e spirituale.
L’identificazione assoluta col personaggio
De Niro si sottopose a una trasformazione fisica ancora oggi citata come esempio estremo di dedizione al ruolo. Perse peso per interpretare il LaMotta giovane e in forma, poi ne guadagnò una quantità impressionante per incarnare l’uomo finito, ingrassato, ridotto a imitare se stesso nei night club. Incontrò il vero Jake LaMotta, studiandone le movenze, l’accento del Bronx, la personalità complessa e contraddittoria. Per interpretare Joey LaMotta, il fratello del pugile, De Niro volle uno sconosciuto attore che aveva visto in televisione anni prima e che non lavorava da tempo, sbarcando il lunario in un ristorante del New Jersey. Si chiamava Joe Pesci e si rivelò l’altra carta vincente del film. I due, per la prima volta, diedero vita a quella diade che avrebbe fatto la storia del cinema nei decenni successivi.
La poetica del bianco e nero
La fotografia in bianco e nero di Michael Chapman dona a Toro Scatenato millimetri di puro realismo e – allo stesso tempo – commovente lirismo alla storia. Scorsese, che non era esperto di pugilato, si recò dal vivo al Madison Square Garden per assistere a dei veri match. E benché il film sia lontano dall’essere verosimile nella rievocazione documentaristica dei combattimenti, Toro Scatenato da allora continua a incatenare il pubblico sul ring. La violenza del film spaventò persino i distributori. Ma era funzionale a mostrare a tutti il senso di profonda e rabbiosa solitudine del protagonista.
La violenza come destino
Il cast dei caratteristi, con Frank Vincent in testa, contribuisce a creare un affresco di un’America e di un’epoca. Gli italoamericani di quegli anni, come nel film, erano gli ultimi della fila, sospettati di non essere fedeli alla nazione ora che gli Stati Uniti erano in guerra con l’Italia fascista. Avevano poche alternative: fare l’operaio, il tassista, il cuoco, il gangster oppure salire su un ring. Jake scelse il ring, ma non riuscì mai a lasciare davvero la strada. Toro Scatenato rappresenta un apice del cinema americano. Un’idea stessa di cinema da portare come esempio di pratica poetica, qualcosa che si studia nelle scuole. E quindi, inevitabilmente, è diventato un classico. All’epoca Scorsese pensava che quello sarebbe stato il suo ultimo lavoro, un testamento spirituale nato dalla disperazione. Invece fu l’inizio di una carriera leggendaria che continua ancora oggi, più di quarant’anni dopo.
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