Teheran valuta la chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transita quasi un quarto del petrolio mondiale. Una mossa che potrebbe avere conseguenze importanti sull’economia globale, spingendo il prezzo del greggio a livelli record e innescando una nuova ondata inflazionistica.
Allerta in Medio Oriente
La tensione in Medio Oriente raggiunge un nuovo picco con la concreta possibilità che l’Iran decida di chiudere lo Stretto di Hormuz, una delle rotte marittime più strategiche del pianeta.
In risposta ai recenti attacchi statunitensi contro i suoi siti nucleari, il parlamento iraniano ha infatti votato a favore del blocco di questo cruciale passaggio. La decisione finale spetta ora al Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, l’organo presieduto da un nominato della Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei. Un’eventualità che tiene il mondo con il fiato sospeso per le sue potenziali ripercussioni economiche e geopolitiche.
L’importanza strategica dello Stretto di Hormuz
Lo Stretto di Hormuz è un “collo di bottiglia” marittimo che collega il Golfo Persico con il Golfo dell’Oman e, di conseguenza, con il Mar Arabico e l’Oceano Indiano. Anche se il suo punto più stretto è largo appena 33 chilometri, con corsie di navigazione di soli tre chilometri per direzione, da qui transita una quantità impressionante di risorse energetiche.
Secondo le stime della U.S. Energy Information Administration, attraverso Hormuz passano quotidianamente circa 20-25 milioni di barili di petrolio, che corrispondono a circa il 25-30% del commercio globale di greggio. A questo si aggiunge un quinto del gas naturale liquefatto (GNL) mondiale, in particolare quello proveniente dal Qatar, uno dei maggiori produttori al mondo.
È evidente, quindi, come la chiusura anche solo temporanea di questo passaggio avrebbe conseguenze immediate (e a catena). Le principali nazioni esportatrici di petrolio della regione, come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Kuwait e lo stesso Iran, dipendono da questa rotta per raggiungere i mercati internazionali, soprattutto quelli asiatici ed europei. Una sua interdizione significherebbe un’impennata quasi istantanea dei prezzi dell’energia, con il rischio concreto di carenze, un aumento dei costi industriali e una nuova, potente spinta inflazionistica su economie globali già fragili.
Le possibili conseguenze economiche
Gli analisti finanziari delineano uno scenario a tinte fosche. JP Morgan ha ipotizzato che un blocco prolungato dello Stretto potrebbe far schizzare il prezzo del greggio in una forbice tra i 120 e i 170 dollari al barile. Altri esperti, come il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, si spingono a prevedere un picco che potrebbe toccare addirittura i 200 dollari. Un record storico mai raggiunto. Già alla sola ventilata minaccia, i mercati hanno reagito con nervosismo. Il 23 giugno, il prezzo del petrolio ha registrato un balzo, raggiungendo i massimi da gennaio, con il Brent che ha superato i 78 dollari al barile e il WTI statunitense che si è assestato intorno ai 75 dollari.
Sicuramente, un’escalation dei costi energetici di questa portata avrebbe effetti devastanti. In Europa, settori chiave come i trasporti, l’agricoltura e il manifatturiero sarebbero particolarmente vulnerabili.
L’Italia, ad esempio, importa circa il 10% del suo gas naturale dal Qatar e il 14% del petrolio dal Golfo Persico, risorse che transitano quasi interamente per Hormuz. L’aumento del prezzo del greggio e del gas si tradurrebbe inevitabilmente in un rincaro dei carburanti alla pompa, delle bollette e di un’ampia gamma di beni e servizi, erodendo il potere d’acquisto dei cittadini. Anche la Cina, seconda economia mondiale e grande acquirente di petrolio iraniano, subirebbe un colpo duro, vedendosi costretta a cercare forniture alternative a prezzi molto più alti.
Chiusura dello Stretto di Hormuz: un’arma a doppio taglio per Teheran
Nonostante la retorica bellicosa, molti osservatori internazionali ritengono che la chiusura dello Stretto di Hormuz sarebbe una mossa “suicida” per lo stesso Iran. Lo ha affermato il vicepresidente statunitense JD Vance, sottolineando come l’intera economia iraniana dipenda dal passaggio attraverso quelle acque. Teheran, nono produttore mondiale di petrolio con circa 3,3 milioni di barili al giorno, ne esporta quasi la metà, e Hormuz rappresenta la via più rapida e sicura per raggiungere i mercati asiatici.
Un blocco totale, quindi, danneggerebbe in primis l’economia iraniana, già provata dalle sanzioni. È per questo che alcuni analisti ritengono più probabile una strategia di “guerra ibrida”, mirata a rendere la navigazione nello stretto insicura attraverso attacchi mirati o incidenti provocati, piuttosto che una chiusura formale. Va notato, inoltre, che negli anni alcuni paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno sviluppato infrastrutture alternative, come oleodotti che raggiungono terminali al di fuori del Golfo Persico, per mitigare la loro dipendenza da Hormuz.
Preoccupazioni internazionali
La comunità internazionale osserva con preoccupazione l’evolversi della situazione. Gli Stati Uniti hanno fatto sapere che una chiusura dello Stretto provocherebbe una “massiccia escalation” e una reazione non solo da parte loro, ma anche di tutti i paesi che dipendono da quella rotta. Anche il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha esortato la Cina a fare pressione su Teheran, data la forte dipendenza di Pechino dal petrolio che transita per Hormuz.
Le diplomazie sono al lavoro per scongiurare il peggio, ma, per ora, l’incertezza regna sovrana.
© Riproduzione riservata