Un’analisi pubblicata sul New England Journal of Medicine e condotta su oltre due milioni di persone, svela l’impatto decisivo di cinque fattori di rischio a 50 anni. Correggere la rotta soprattutto agendo su fumo e pressione, può regalare più di un decennio di vita in salute.
Un’indagine globale
La svolta dei cinquant’anni non è solo un traguardo anagrafico, ma un crocevia per la salute del cuore. A certificarlo è un imponente studio coordinato dall’University Heart and Vascular Center di Amburgo e realizzato dal Global Cardiovascular Risk Consortium, con la partecipazione anche di istituti italiani come l’Istituto Superiore di Sanità e Neuromed.
La ricerca, apparsa sulla prestigiosa rivista scientifica New England Journal of Medicine, ha messo sotto la lente i dati di ben 2.078.948 individui provenienti da 133 coorti sparse in 39 nazioni su 6 continenti. L’obiettivo era semplice ma ambizioso. Misurare in modo oggettivo quanto la presenza o l’assenza di cinque fattori di rischio cardiovascolare classici – ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete, abitudine al fumo e un indice di massa corporea non ottimale (sovrappeso o sottopeso) – all’età di 50 anni potesse definire la longevità in termini di salute.
I risultati, più che semplici numeri, hanno fotografato una mappa dettagliata del futuro; dimostrando che le scelte compiute in questa fase della vita hanno conseguenze dirette e misurabili sull’aspettativa di vita libera da malattie.
Il peso del rischio cardiovascolare a 50 anni
I dati emersi dallo studio sono perentori e tracciano una linea netta tra chi a 50 anni vive libero da questi fattori di rischio e chi invece ne è gravato.
Una donna cinquantenne che presenta tutti e cinque i fattori di rischio ha una probabilità del 24% di sviluppare una malattia cardiovascolare nel corso della vita; per un uomo nelle stesse condizioni, la probabilità sale al 38%. Ma il dato più impattante è la traduzione di questo rischio in anni di vita in salute persi. Una donna che a 50 anni non ha nessuno dei cinque fattori di rischio vive in media 13,3 anni in più libera da eventi cardiovascolari e ha una speranza di vita complessiva maggiore di 14,5 anni rispetto a una coetanea con tutti e cinque i fattori.
Per gli uomini, il vantaggio si traduce in 10,6 anni aggiuntivi senza malattie cardiovascolari e 11,8 anni di vita in più. Numeri che dimostrano in maniera inconfutabile come accumulare fattori di rischio significa, letteralmente, raddoppiare la probabilità di ammalarsi e abbreviare in modo significativo la propria esistenza. L’analisi ha riportato anche come il rischio di mortalità prima dei 90 anni per una donna passi dal 53% (senza fattori) all’88% (con tutti i fattori), e per un uomo dal 68% al 94%.
I benefici di un “cambio di rotta” dopo i 50 anni
Se il quadro può apparire severo, il messaggio più potente che emerge dalla ricerca è di grande speranza: non è mai troppo tardi per “invertire la rotta”. Lo studio, infatti, ha analizzato anche l’impatto di un cambiamento dello stile di vita in età più avanzata, tra i 55 e i 60 anni, rivelando benefici tangibili e immediati.
Tra tutti gli interventi possibili, due si sono dimostrati particolarmente efficaci. La normalizzazione della pressione arteriosa è l’azione che garantisce il maggior numero di anni aggiuntivi liberi da malattie cardiovascolari. Smettere di fumare, d’altro canto, è il cambiamento che più di ogni altro allunga la speranza di vita complessiva. E abbandonare le sigarette in questa fase della vita, ad esempio, può allungare l’esistenza di oltre 5 anni.
Portare la pressione massima sotto i 130 mm/Hg si traduce in un ritardo di circa un anno e mezzo nell’insorgenza di patologie cardiache, mentre normalizzare la glicemia può posticipare la comparsa di tali malattie di oltre 4 anni. Questo dimostra che la prevenzione non è un concetto astratto, ma un insieme di azioni concrete e misurabili che possono essere intraprese a qualunque età.
La sfida del “rischio residuo”
Un ultimo dato dello studio apre nuove prospettive per la ricerca futura. Anche nei soggetti che a 50 anni non presentavano nessuno dei cinque fattori di rischio analizzati, permaneva comunque una probabilità non nulla di sviluppare patologie cardiovascolari, attestandosi al 13% per le donne e al 21% per gli uomini. Questa evidenza, nota come “rischio residuo”, spinge la comunità scientifica a guardare oltre i nemici conosciuti. Se circa il 50% del carico globale di malattie cardiovascolari è attribuibile a ipertensione, fumo, diabete, colesterolo e peso, l’altra metà resta un campo ancora da esplorare a fondo.
Tra i principali indiziati vi sono la predisposizione genetica, i processi infiammatori cronici di basso grado e i danni ambientali, come l’inquinamento atmosferico. La comprensione di questi ulteriori meccanismi sarà la prossima grande sfida per la cardiologia.
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