L’Inventario nazionale dell’Isin registra oltre 33mila metri cubi di materiale radioattivo. Il Lazio guida la classifica regionale per quantità di scorie, mentre il Piemonte detiene il primato dell’attività. Prosegue lo smantellamento delle vecchie centrali nucleari.
In crescita il patrimonio radioattivo nazionale
L’ultimo Inventario nazionale, redatto dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin) e aggiornato al 31 dicembre 2024, documenta un incremento di 1.103,5 metri cubi rispetto all’anno precedente. Il volume complessivo ha raggiunto quota 33.766,60 metri cubi, segnando un aumento percentuale del 3,38%. Questi numeri rappresentano l’eredità dell’era nucleare italiana e delle attività che ancora oggi producono materiali radioattivi, dalla ricerca scientifica alle applicazioni mediche.
Il documento, pubblicato dall’Isin, si basa sui dati trasmessi annualmente dagli operatori che gestiscono questi materiali sensibili. Per il secondo anno consecutivo, le informazioni sono state raccolte attraverso il Sistema tracciabilità rifiuti materiali e sorgenti (Strims), uno strumento che garantisce un monitoraggio puntuale di ogni singolo deposito presente sul territorio nazionale. La distribuzione geografica delle scorie racconta una storia fatta di vecchi impianti industriali, centri di ricerca e strutture sanitarie che nel corso dei decenni hanno accumulato materiali radioattivi in attesa di una sistemazione definitiva.
Lazio in testa, ma l’attività maggiore è in Piemonte
La geografia dei rifiuti radioattivi italiani vede il Lazio in cima alla classifica nazionale con 12.224 metri cubi, che rappresentano il 36,20% del totale.
L’incremento più significativo si registra proprio in questa regione, dove l’impianto Nucleco spa, situato all’interno del Centro ricerche Enea della Casaccia a Roma, ha visto aumentare il proprio volume di stoccaggio di 1.469,42 metri cubi. Un balzo riconducibile al trasferimento dei rifiuti provenienti dal deposito dell’ex Cemerad di Statte, in provincia di Taranto.
Dietro il Lazio si posiziona la Lombardia con 6.602 metri cubi (19,55% del totale), seguita dal Piemonte che detiene 5.903 metri cubi pari al 17,48%. La Basilicata occupa il quarto posto con 4.288 metri cubi (12,70%), mentre la Campania ne conta 2.400 (7,11%). Chiudono la graduatoria l’Emilia Romagna con 1.383 metri cubi (4,10%), la Toscana con 939 metri cubi (2,78%) e la Puglia con appena 27,60 metri cubi, che rappresentano lo 0,08% del totale nazionale.
Se però si considerano i livelli di attività radioattiva, il primato spetta al Piemonte con 27.067,3 Terabecquerel (TBq). L’impianto Eurex di Saluggia (Vc) detiene il quantitativo maggiore di attività con 1.877.598,83 Gigabecquerel (GBq). Un dato che evidenzia come la pericolosità delle scorie non sia necessariamente proporzionale al volume occupato.
Diminuisce l’attività radioattiva complessiva
Mentre il volume delle scorie aumenta, l’attività totale dei materiali radioattivi presenti in Italia mostra un trend opposto. Al 31 dicembre 2024, l’attività complessiva ammonta a 34.237,30 Terabecquerel, con una diminuzione di 1.775 TBq rispetto all’anno precedente. Questo calo, pari al 2,81%, è conseguenza naturale del decadimento radioattivo, il processo attraverso cui gli elementi instabili perdono progressivamente la loro radioattività nel tempo.
L’analisi per tipologia di rifiuti rivela dinamiche differenziate. Calano i volumi delle scorie a vita molto breve (meno 109,72 metri cubi), quelle ad attività bassa (meno 268,65 metri cubi) e quelle ad attività media (meno 0,91 metri cubi). Al contrario, cresce in modo significativo il volume dei rifiuti ad attività molto bassa, con un incremento di 1.482,72 metri cubi. Questa categoria comprende materiali con livelli di radioattività talmente ridotti da richiedere procedure di gestione meno complesse rispetto alle scorie più pericolose.
Prosegue lo smantellamento delle centrali
L’aumento del volume di rifiuti radioattivi registrato nel 2024 deriva principalmente da due fattori interconnessi. Da un lato proseguono le operazioni di decommissioning, termine tecnico che indica lo smantellamento controllato delle vecchie installazioni nucleari italiane. Dall’altro continuano le attività di ricerca, medicina e industria che generano scorie radioattive. Nel dicembre 2024 sono rientrati alla Centrale nucleare del Garigliano alcuni rifiuti metallici che erano stati inviati in Svezia per essere sottoposti a trattamento di fusione, un processo che consente di ridurre il volume delle scorie e recuperare materiali riutilizzabili.
Un capitolo rilevante riguarda il combustibile nucleare esaurito delle quattro centrali dismesse italiane. Il 99% di questo materiale è stato trasferito in Francia e Gran Bretagna per essere sottoposto a riprocessamento chimico, una procedura che permette di recuperare elementi ancora utilizzabili. I prodotti derivanti da questo trattamento torneranno in Italia sotto forma di rifiuti radioattivi vetrificati, caratterizzati da un volume inferiore rispetto al materiale di partenza. Si tratta di una soluzione che riduce l’ingombro fisico delle scorie ma non elimina la necessità di trovare una collocazione permanente e sicura.
Deposito nazionale, un progetto ancora in cerca di casa
Tutte queste scorie sono attualmente distribuite in 23 depositi temporanei sparsi sul territorio nazionale.
L’obiettivo di lungo periodo resta la realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, un’infrastruttura ambientale di superficie dove sistemare in via definitiva i materiali a bassa e media radioattività. Secondo il progetto originario, accanto al deposito dovrebbe sorgere un Parco Tecnologico dedicato alla ricerca nel settore del decommissioning e della gestione delle scorie. Purtroppo, la strada verso la realizzazione di questa struttura si è rivelata più tortuosa del previsto.
Nel frattempo, i depositi temporanei continuano a custodire un’eredità che il Paese si porta dietro da decenni. La gestione dei rifiuti radioattivi rappresenta una responsabilità che l’Italia, come ogni Stato membro dell’Unione Europea, è tenuta ad affrontare secondo quanto stabilito dalla Direttiva 2011/70/Euratom.
I numeri dell’Inventario nazionale certificano una situazione sotto controllo dal punto di vista della sicurezza, ma ancora lontana da una soluzione definitiva sul fronte dello stoccaggio permanente. Gli operatori pubblici e privati mantengono la custodia di questi materiali in attesa che la politica individui il luogo dove costruire l’infrastruttura necessaria a chiudere, almeno in parte, una pagina della storia energetica italiana.
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