“Christiana Figeures, ex direttrice dell’ufficio sul clima dell’Onu, ha detto che abbiamo tempo fino al 2020 per evitare livelli di surriscaldamento che porterebbero a cambiamenti climatici incontrollabili, irreversibili”. L’ha detto nel 2015, siamo nel 2025.
Questa è una delle centinaia e centinaia di argomentate notizie d’allarme raccolta da Jonathan Safran Foer, quarantenne scrittore ebreo newyorchese, autore di bestseller mondiali, nel suo ultimo libro. Titolo: Possiamo salvare il mondo prima di cena. La sua tesi è fondamentalmente questa: l’allevamento intensivo degli animali da bistecca è una delle cause principali dei cambiamenti climatici, forse “La” causa principale. Nel corso dei loro processi digestivi, bovini, pecore e capre producono una quantità mostruosa di metano. Se le mucche fossero un paese, sarebbero terze in classifica per emissioni di gas serra, dopo la Cina e gli Stati Uniti. Noi umani mangiamo troppo cibo di origine animale. Carne, latticini, uova. Perciò gli allevamenti si fanno sempre più intensivi.
“Cambiare il nostro modo di mangiare non sarà sufficiente di per sé a salvare il pianeta, ma non possiamo salvare il pianeta senza cambiare il nostro modo di mangiare”. Vero, incontrovertibile.
Confesso che mi ha colpito molto questo pamphlet così lieve (il ragazzo scrive bene) eppure così rigoroso. Così sensazionale nel descrivere come moriremo e così fiducioso nella possibilità di responsabilizzare i suoi contemporanei sul tema della salvaguardia del mondo in cui viviamo e, soprattutto, in cui vivranno i nostri figli e nipoti, e i figli dei nostri figli e nipoti.
Come sempre, quando sono colpita da qualcosa che sto leggendo, cerco di condividere (si pubblicano tanti volumi inutili che quando casco su uno utile mi spendo per diffonderlo). E lì, nella condivisione, è arrivata la sorpresa.
Il discorso di Safran Foer, fa ridere. Suscita ilarità. L’idea della dieta vegetariana per ridurre l’emissione di gas serra legati ai nostri consumi alimentari viene vissuta come una barzelletta. Eppure, che il riscaldamento globale stia mettendo a rischio il pianeta su cui abbiamo fatto il nido, lo sappiamo tutti. Sappiamo che se continuano a sciogliersi i ghiacci, se la deforestazione ci priva dei nostri più grandi alleati (gli alberi), se il livello dei mari salirà, se le ondate di caldo, se la siccità, se le inondazioni diventeranno sempre più frequenti, se l’inquinamento da CO2 crescerà ancora, moriranno milioni di persone, moriremo.
Lo sappiamo. È un retropensiero sgradevole, ma non ci angoscia mai veramente. Lo consideriamo un argomento di conversazione socialmente inappuntabile perché mette tutti d’accordo. Davanti al discorso della salute del pianeta ogni padrona di casa può contare su una unanimità di quelle che non mettono a rischio la cena. Di fronte alla minaccia ecologica tutti sospirano e nessuno si spaventa. Nessuno pensa che sia possibile fare qualcosa. Che cosa siamo noi di fronte all’enormità dei ghiacciai della Groenlandia? Nessuno è davvero coinvolto. Tutti vestono i comodi panni della vittima, nessuno si sente colpevole. Se un colpevole c’è, va cercato nelle altissime sfere: il señor Bolsonaro, che ha fatto abbattere la foresta amazzonica per costruire insediamenti urbani; mister Trump, che ha la faccia tosta di negare ogni addebito. Gente così. Tipi da stanza dei bottoni.
Non certo noi, poveri cittadini inermi che accettano ogni disgrazia piagnucolando dopo. Che non ci sono più le mezze stagioni, che non s’è mai visto un dicembre così caldo, che le bombe d’acqua hanno sostituito i cari vecchi temporali, ispirazione di tanti poeti.
La verità è che non ce ne frega niente della tragedia che si sta preparando. E questo, mi pare, è uno dei peggiori effetti collaterali di un vizio nazionale o forse mondiale: l’abitudine di vivere nel presente. Noi siamo ossessionati dal presente. I politici ragionano al massimo su una legislatura, tutto quello che cade più avanti, “scansati e non ti sotterrerà”. I cittadini mettono tutta la loro energia a respingere l’ipotesi che arrivi la vecchiaia, la malattia, la morte. Figurati mai se hanno voglia di contemplare possibili dipartite anzitempo. Nessuno ha voglia di guardare avanti. Nessuno ha voglia di sacrificare una grigliata per salvare il pianeta dalle flatulenze dei bovini.
Così balliamo tutti sulla tolda del Titanic, per non pensare che stiamo per colare a picco. Esagero? Purtroppo no, anzi, per ignoranza non vi so istruire su tutti i rischi che corriamo, sulla loro genesi, sulle nostre piccole responsabilità, su quelle grandi di chi governa il pianeta. I miei dati d’allarme sono approssimati per difetto.
Ma qualcosa volevo fare, comunque, pur nella mia consapevole marginalità: ho smesso di mangiare carne. Zero salumi.
È stato costretto a ritirarsi anche il tasso di colesterolo nel mio sangue.
Che il benessere del pianeta coincida imprevedibilmente con il nostro?
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