Il romanzo dell’autrice, tra i protagonisti del Premio Strega 2025, racconta la storia di Venera, sua bisnonna internata in manicomio. È da una cartella clinica ritrovata che inizia la narrazione
Nadia Terranova, voce intensa della narrativa contemporanea italiana, torna con Quello che so di te, che si annuncia come un’esplorazione intima e coraggiosa delle radici familiari e della memoria. Al centro della narrazione si staglia la figura di Venera, bisnonna dell’autrice, internata in manicomio. Attraverso un meticoloso lavoro di ricerca negli archivi e un dialogo serrato con la “mitologia familiare”, Terranova scava nella storia di questa donna, svelando discrepanze tra i racconti tramandati e la realtà emersa da una cartella clinica ritrovata.
La struttura narrativa a doppio binario è uno degli elementi più originali. Da un lato la voce narrante, che conduce la sua indagine con lucidità e partecipazione emotiva; dall’altro, irrompono le parole dirette di Venera dagli estratti della sua ‘anamnesi’ in corsivo. La “viva voce” scardina l’immagine stereotipata della “nonna muta”, svelando una personalità complessa e una storia diversa da quella sedimentata nella memoria familiare. Il confronto tra queste due voci crea una sorta di dialogo tra generazioni, una “seduta spiritica” in cui il passato torna a farsi sentire con forza, mettendo in discussione certezze consolidate e aprendo nuove prospettive sulla storia di una famiglia e sulla natura stessa della memoria e della verità.
Con Nadia Terranova, che si annunzia tra i protagonisti dello Strega 2025, abbiamo conversato sul privilegiato processo creativo che l’ha portata a un romanzo così intenso, rivelatore, catartico.
Tutto nasce dall’essere madre. Cosa significa e come si trasformano la vita e la psiche?
Non può esistere una risposta unica a questa domanda: ci sono almeno tante madri quanti sono i figli, quindi gli esseri umani; di certo la maternità è un’esperienza plurale, che solo le donne possono esperire. Per me è stata trasformativa, potente. Ho percepito un accrescimento del mio sguardo sulla realtà.
Scrive che la sua è anche una “seduta spiritica”. In che senso?
Scrivere è spesso, per me, evocare figure fantasmatiche. Far parlare i morti, lasciarli precipitare sulla pagina: può capitare, le parole li richiamano. Mi viene in mente la storica figura della ‘doula’, una assistente alla nascita e alla morte, una donna sapiente che conosce e frequenta i confini tra la vita e la morte, il parto e l’addio.
“Un conto è sognare il passato, una cosa è andarselo a prendere”, leggo. È necessaria una simile struttura narrativa, non solo di finzione e narrazione, per poter recuperare il passato o una sua ipotesi? E perché proprio questa?
Scrivo questa frase nel momento in cui ritrovo in archivio la cartella clinica della mia bisnonna e devo mettere questo oggetto fisico, materiale, in relazione con le parole della mitologia familiare. Questa frase nasconde una citazione di Ursula K. Le Guin quando dice: “ma un conto è leggere di draghi, un conto incontrarli”, ed emblematizza la scrittura del tutto particolare, librida e ibrida, che ho voluto dare a questo libro che, sì, non poteva che essere scritto così.
Attraverso Venera affiora il tema della pazzia. Non trattata con elettrochoc, come vuole la mitologia famigliare, ma ugualmente devastante per gli esiti.
Non abbiamo certezza che non le sia stato praticato un trattamento elettroconvulsivante: gli psichiatri Cerletti e Bini “istituzionalizzano” l’elettroshock qualche anno dopo il ricovero della mia bisnonna, ma non si può escludere che le siano state praticate terapie simili in via ufficiosa e sperimentale, oltre alla piroterapia, ovvero l’induzione della febbre, e forse anche la malarioterapia, considerata il trattamento più all’avanguardia del tempo.
Una storia in cui si mescolano biografia personale, ricerca storica e mitologia familiare. Come si trasforma o si modifica la scrittura adeguandosi ai diversi punti di vista che si incrociano?
È stato interessante lasciare la scrittura libera dalla struttura del romanzo in senso stretto e vedere la lingua modificarsi e reagire alla sintassi delle cartelle cliniche, a quella della poesia, alle incursioni saggistiche. Non sarei mai riuscita a concedermi una simile libertà di forma e linguaggio se non avessi prima scritto romanzi dalle gabbie più collaudate.
Anche la ricerca iconografica: si somigliano le sedie dei manicomi con quelle dei nostri salotti. Tutto serve per arrivare dove?
Alle verità plurali e a un dato di fatto che non possiamo ignorare: la salute mentale, e il modo in cui una società la tratta, è e sarà sempre parte delle nostre vite.
La storia di un nonno combattente nella Prima guerra mondiale, ma in realtà disertore.
Anche in questo caso, molte verità: era davvero un disertore?
Ho usato una parola eccessiva, volutamente provocatoria. Era un disertore o un ragazzo che amava la vita? Aveva risposto o meno alla cartolina del servizio militare? Non aver fatto la guerra gli pesava rispetto all’immaginario machista del regime? Le domande sono sempre più interessanti delle risposte.
Mi dice un autore che sente fraterno rispetto alla storia che ha scritto?
Le dico il mio scrittore della vita: Bruno Schulz.
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