Tobia Romani, oggi 88enne, racconta la vita quotidiana della sua famiglia. Disegna uno spaccato del marzo 1944, quando la risposta tedesca all’attentato di via Rasella fu l’uccisione di 335 civili
Sono nato nel 1937, e quando scoppiò la guerra avevo 7 anni. Tra ricordi che più sono rimasti impressi nella memoria c’è quella lunga sfilata di gente che portavano alle Fosse Ardeatine. Io abitavo lì a Porta Latina, ero ancora un ragazzino, e loro dovevano passare dall’Appia Antica, dovevano passare per forza da lì per arrivare alle cave. Mi pare che ci fossero i tedeschi ma c’erano anche soldati italiani; non so bene chi fossero, ma erano armati. Quell’immagine è rimasta, forse un po’ sfocata ma le sensazioni che provavo in quei giorni sono ancora vivide nella mia mente. All’interno del mio palazzo abitava un ufficiale dell’esercito, un alto ufficiale, e lui sopra a casa aveva tutti i binocoli e tanto altro materiale militare. In quel periodo però non c’era, perché stava combattendo: a casa c’erano solo la moglie con i figli. Un giorno qualcuno, notò la sua finestra spalancata, poi iniziarono a sparare con la mitraglia lì contro. C’erano una miriade di buchi sul muro, dappertutto. Quello non posso proprio dimenticarlo. E poi mi ricordo quando bussavano alle porte! Quando scendeva, anche mio padre saltava dalla paura. Noi abitavamo al piano basso, e lui passava da un cortile all’altro, per la paura che lo prendessero.
Durante la Guerra noi bambini vivevamo un’atmosfera ben lontana dalla normalità; c’erano tante restrizioni e poca spensieratezza. Eravamo già cinque o sei figli a casa, perché nella mia famiglia siamo nove in tutto. Le altre sorelle sono più piccole, vengono dopo, dal 1943 in poi. Io mi ricordo un po’ meglio degli altri di quel periodo; anche perché, adesso, tanti non ci sono più. Mi è rimasta solo una sorella del ’31, ma si trova in una casa di riposo e la sua memoria si è spenta. Gli ultimi ricordi della mia famiglia, sono i miei.
Nonostante la paura, nonostante le continue preoccupazioni, nonostante tutto, la comunità intorno a noi c’era ancora, anzi, a dire il vero eravamo più legati di adesso. Ora non ti pensa nessuno, ma in quel periodo eravamo tutti fratelli, eravamo tutti una famiglia. Anche chi abitava alla porta accanto. Che bello, parlavamo con tutti. Mi ricordo che c’era un infermiere che abitava vicino alla porta di casa mia, che si dedicava a tutto: se ti sentivi male lui era come il dottore per tutti. Stavamo quasi bene. Però casa nostra guai a parlare di quello che succedeva. Come toccavamo l’argomento, mio padre diceva: “Zitto, zitto, zitto! Non voglio sentire parlare di guerre e non voglio sentire parlare di partiti, non voglio sentire niente”.
Ero piccolo, però mi ricordo bene quando bombardarono San Lorenzo. “Hanno bombardato San Lorenzo, lo scalo San Lorenzo!”, dicevano i ragazzi più grandi. Io lì non c’ero, ma sentivo parlare gli adulti. Fecero saltare pure dei vagoni lì. E quelli, i botti a Porta San Sebastiano, li ho sentiti bene; erano dei vagoni che saltavano, con la ferrovia che passava lì vicino. Però paura non ne ho mai avuta, forse perché non capivo bene. Cioè, capivo così così quello che stava succedendo davvero.
Poi vennero gli americani e ci fu la liberazione e si erano accampati lì vicino a Villa dei Scipioni. Fu proprio come si vede nei film: tutti noi ragazzini eravamo intorno a loro, perché ci davano le gomme americane, le caramelle e tante altre cose che non avevamo mai visto prima. Una sensazione bellissima.
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