Donald Trump ha sempre avuto un conto in sospeso con le pale eoliche. Quattordici anni fa, quando possedeva e gestiva campi da golf in Scozia, nei pressi di Aberdeen, si oppose alla costruzione di un parco eolico offshore che sarebbe stato visibile dalla costa e che, secondo lui, avrebbe rovinato la vista panoramica dei suoi resort. Tentò di fermare il progetto in tutti i modi, anche con una causa legale, ma perse. Nel 2015 la Corte Suprema del Regno Unito confermò la legittimità del parco eolico e Trump fu costretto a versare al governo scozzese 290.000 dollari per le spese legali sostenute. Da quel momento nacque il suo odio contro le pale eoliche, un sentimento che nel tempo si è trasformato in una vera e propria crociata politica.
Dall’inizio della sua presidenza, l’amministrazione Trump ha ingaggiato un’offensiva sistematica contro l’energia eolica: sospensione di autorizzazioni, blocco di cantieri e dubbi sollevati sull’impatto delle turbine eoliche su radar militari, esseri umani e mammiferi marini. Un caso emblematico è quello di Revolution Wind, parco offshore da 6,2 miliardi di dollari al largo delle coste del Rhode Island, sviluppato da un’azienda danese e completato all’80%.
L’ordine di sospensione arrivato dalla Casa Bianca, giustificato con motivi di “sicurezza nazionale”, rischiava di bloccare un progetto destinato a fornire energia a circa 350.000 abitazioni e a creare centinaia di posti di lavoro. Tuttavia, anche in questo caso, un giudice federale ha annullato l’ordine, definendolo “arbitrario e capriccioso”.
Dietro queste vicende, però, non c’è solo un capriccio presidenziale, ma uno scenario più ampio, quello che lo storico Nils Gilman ha definito “la nuova guerra fredda ecologica”, e cioè una inedita dimensione del conflitto geopolitico globale, incentrata sulla transizione energetica.
Secondo Gilman, la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio non riguarda solo aspetti tecnologici o economici, ma costituisce un terreno di scontro geopolitico fondamentale, destinato a ridisegnare il futuro ordine mondiale.
La sfida non è più tra stati o blocchi militari, ma tra due modelli di sviluppo: da un lato, l’“asse dell’idrocarburo”, di cui fanno parte Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita, che continuano a basare la loro economia e la loro identità nazionale sull’uso dei combustibili fossili. Questi Paesi vedono la decarbonizzazione come una minaccia quasi esistenziale al loro modello di sviluppo.
Dall’altro, i promotori della transizione energetica, come la Cina e l’Unione europea, che stanno investendo massicciamente nelle energie rinnovabili e nella neutralità climatica, e che vedono nelle tecnologie pulite uno strumento di competitività e di influenza globale.
Nello scacchiere internazionale la transizione energetica diventa dunque un criterio fondamentale per determinare le alleanze internazionali e le gerarchie di potere. In questo nuovo ordine, non è più sufficiente essere una democrazia liberale o un regime autoritario, ciò che conta è la capacità di adattarsi e guidare la transizione verso un futuro a basse emissioni di carbonio.
In questo contesto, le iniziative di Trump contro i parchi eolici non sono meri capricci, rappresentano la messa in pratica di una strategia politica tutta centrata sulla difesa dell’industria fossile. Gli Stati Uniti, pur essendo uno dei principali esportatori di petrolio e gas, hanno rallentato progetti eolici in un momento di forte crescita della domanda energetica, alimentata anche dall’espansione dei data center e dell’intelligenza artificiale. Perché la nuova “guerra fredda ecologica” si combatte così, non solo con missili e droni, ma anche con turbine e trivelle, poiché ogni decisione energetica ha conseguenze geopolitiche e simboliche.
E il destino della Scozia vista dai fairway di Trump diventa, suo malgrado, una metafora perfetta, in gioco non c’è più solo la linea dell’orizzonte, ma l’orizzonte stesso del pianeta.
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