Accademico di origini italiane, è tra i più importanti scienziati impegnati nella ricerca sulle nanotecnologie. A Spazio50 racconta lo studio sul nuovo farmaco per contrastare metastasi, l’album da solista e il progresso della tecnologia in ambito medico
Il suo cursus honorum sia accademico che nella ricerca, sia professionale che a livello di premi e di divulgazione, è impressionante e fa di Mauro Ferrari uno dei più prestigiosi scienziati italiani. Ve lo riassumiamo così: tre lauree e relativi master, matematica, ingegneria meccanica e medicina; docente all’Università della California di Berkeley, alla Ohio State University, alla Texas University di Houston e all’Università di Washington; presidente del Methodist Hospital Research Institute, dell’European Research Council e di BrYet Pharma, nonché ricercatore impegnato nella realizzazione di farmaci innovativi e di apparati medicali (vanta una sessantina di brevetti specifici) per la cura dei tumori. Ferrari, inoltre, è un appassionato divulgatore scientifico, conferenze sui generis in cui la musica ha un ruolo importante. Lo abbiamo intervistato in occasione di un debutto, quello in veste di cantante, nel recente album a suo nome, intitolato MoonLanding.
Lei è uno dei massimi esperti mondiali di nanotecnologie. Come è nato questo interesse e questa scelta professionale?
«Quando ho iniziato a lavorare su dimensioni nanoscopiche, da giovane professore a Berkeley, tanti anni orsono, la parola “nanotecnologia” non esisteva ancora nel mondo della scienza. A me però servivano dei vettori più piccoli possibile per veicolare farmaci con grande precisione contro le metastasi che spesso si sviluppano in particolare nei polmoni e nel fegato. Queste erano generalmente incurabili allora, come lo sono generalmente anche adesso. La ragione per cui mi ero lanciato sulla ricerca di terapie efficaci contro le metastasi era il cancro che aveva attaccato mia moglie Marialuisa, che poi è morta a soli trentadue anni. Questa però è diventata la sfida della mia vita. Nonostante i gravi dolori e le tante sconfitte, sono un po’ confortato dal fatto che la nanomedicina ha da allora dato origine a decine di farmaci nuovi, che sono stati usati in tutto il mondo in miliardi di dosi, portando benefici di salute a centinaia di milioni di persone, in oncologia e altri settori della medicina.»
Le nanotecnologie, specie in ambito medico, sono forse la speranza principale che l’uomo ha per allungare la propria aspettativa di vita. Cosa ci attende in un futuro prossimo venturo in questo ambito?
«Ci sono tante ragioni scientifiche per essere ottimisti sul futuro delle scienze mediche. La nanomedicina è ormai diventata parte integrante di tante di queste, al punto che molti farmaci e molte procedure diagnostiche che hanno basi nanotecnologiche vengono utilizzati tutti i giorni in cliniche, ospedali e laboratori, ma quasi nessuno neanche più si ricorda o si rende conto che sono basati sulle nanoscienze. Penso alla genetica, a tante forme di medicina di precisione, a molti farmaci a bersaglio molecolare, ai mezzi di contrasto radiologici. Ma pure alla loro controparte digitale e all’intelligenza artificiale: senza nanotecnologia e nanoelettronica non esisterebbe la potenza di calcolo necessaria per queste. E tra l’altro neppure gli smartphone!
Ormai abbiamo tutti delle nanocose che ci portiamo sempre e dovunque, e che sono importantissimi per la nostra vita, anche se appunto neppure ci rendiamo conto che sono “nano”. Tornando alla medicina, i progressi di questi ultimi anni sono stati incredibili, e mi attendo che entro pochi anni la percentuale di tumori da cui si potrà guarire completamente salirà dal 50-60% attuale all’80-90%, compresi certi tipi ahimè molto frequenti di malattie metastatiche. Per avere la giusta prospettiva ricordiamoci che la parola “cancro” era una condanna a morte nella quasi totalità dei casi fino a pochi decenni orsono! In altri settori della medicina, mi aspetto grandi progressi specialmente contro le malattie neurodegenerative, ma per queste ci vorrà forse più tempo.»
D’altra parte, però, insieme all’AI, le nanotecnologie, nella percezione della gente, rappresentano anche uno dei pericoli maggiori per l’uomo, che appare destinato a essere controllato dalle macchine fin nei più piccoli anfratti del suo corpo. È proprio così?
«Le tecnologie di per sé non sono né buone né cattive, ma semplicemente sono. Dipende tutto dall’uso che se ne fa. Le nanotecnologie e l’intelligenza artificiale non sono un’eccezione. Sta a tutti noi come comunità utilizzarle per scopi benefici. Per esempio, è eticamente necessario che i farmaci innovativi siano messi a disposizione di tutti in tutto il mondo, e non siano solo un privilegio di chi vive in Paesi ricchi. Questo non è un problema della tecnologia di per sé, ma è anzi soltanto una questione di distribuzione, di scelte politiche, e alla fine di soldi. Similmente, per quanto riguarda il temuto “controllo” da parte delle tecnologie, non vedo rischi intrinseci nella nanotecnologia di per sé, ma sono preoccupato dal fatto di vedere ormai intere generazioni di giovani e non solo completamente assorbiti e grottescamente influenzati da imbecillità sui telefonini. Quello è un vero pericolo, non il microchip superpotente che invece può aiutare a identificare una malattia rara e la sua terapia, ed è quindi giusto che venga sviluppato.
Comunque sia, io non vedo la nanotecnologia come una nuova scienza emergente. Quegli anni di frontiera sono passati, sono cose di inizio secolo. Sono almeno 15 anni che non faccio più nanomedicina, ma lavoro con cose che in qualche modo ne sono figlie, così come sono figlie di scienze consolidate più tradizionali, come la matematica, la biologia molecolare, la fisica del trasporto, la chimica organica. È da queste evoluzioni ulteriori che nascono i farmaci nuovi su cui lavoriamo adesso per aiutare a trovare soluzioni contro malattie attualmente incurabili.»
Lei vanta oltre 50 brevetti di innovazioni tecnologiche. Qual è il suo più utile in prospettiva e quello più particolare o più “miniaturizzato”?
«Le cose più piccole che ho fatto, ormai trent’anni fa, sono i nanocanali per membrane filtranti, sistemi di rilascio controllato di farmaci, e i trapianti cellulari. Dimensioni piccole fino ai 2-5 nanometri, ovvero mezza dozzina di atomi, in miliardi e miliardi di copie tutte identiche, sulla stessa microstruttura di silicio. Le abbiamo anche portate nello spazio, in più voli ed esperimenti sulla International Space Station, in collaborazione con la NASA e SpaceX.
Per quanto riguarda l’impatto in medicina, la missione della mia vita è la lotta alle metastasi. Stiamo proprio ora iniziando i primi studi clinici per un farmaco nuovo, multicomponente, chiamato ML-016, precisamente contro le metastasi ai polmoni e al fegato, che sono attualmente incurabili e la principale causa di mortalità in oncologia. I risultati preclinici sono stati senza precedenti, con un alto numero di guarigioni complete in animali con malattie analoghe. Questo certamente non garantisce il successo contro la malattia umana, ma è incoraggiante. Sono i risultati migliori che ho visto in oncologia negli ormai 35 anni che ci lavoro.
I prossimi mesi saranno molto importanti, e ci diranno se ML-016 potrà essere approvato dagli enti omologatori, e quindi distribuito e utilizzato su vasta scala. O se invece dovremo tornare a lavorarci sopra, e migliorarlo, o ripartire da zero. Anche se alla fine non è mai da zero: infatti, le scoperte più importanti nascono sempre da sconfitte scientifiche. Sono le sconfitte che permettono di ripartire da sopra lo zero, se si ha il coraggio e la pazienza di raccogliere i pezzi, rimetterli insieme in una nuova creazione, e ripartire. Per riuscire a fare questo per anni e anni e ancora anni senza mollare, è necessario ricordarsi che non è per noi stessi che facciamo queste cose. Non per desiderio di successo, fama, ricchezze. È perché abbiamo la fortuna (nel mio caso certamente immeritata) di trovarci nelle condizioni di poter portare beneficio a chi soffre e ha perso la speranza. Se si ha questa fortuna, allora si ha anche l’obbligo etico di darsi una spolverata, tirarsi su le maniche, e ripartire dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta.»
Lei opera da molti anni a Houston, in Texas. Come ci è arrivato e qual è la differenza tra fare lo scienziato in Italia e farlo negli USA?
«Ci sono tanti scienziati bravi e bravissimi in Italia così come negli USA, e in tante altre parti del mondo. Il talento si trova ovunque, ma l’opportunità ahimè un bel po’ di meno. Io ho avuto la fortuna sfacciata e certamente immeritata di trovarmi a lavorare in posti considerati tra i primi al mondo nei loro settori di riferimento. Matematica, fisica, ingegneria a Berkeley, oncologia all’MD Anderson e al Methodist Hospital a Houston, oltre che al National Cancer Institute a Washington, da dove abbiamo fatto partire la nanomedicina. In questi luoghi ho avuto accesso a straordinarie risorse e opportunità di collaborazione. Ma ho continuato e continuo ancora a lavorare con l’Italia e con tanti bravissimi italiani.»
Oggi la scopriamo anche musicista. Quali sono, secondo lei, i contatti da mantenere sempre tra le arti umanistiche e le scienze tecnologiche?
«Beh, chiamarmi “musicista” è usare una parola grossa… Diciamo che mi piace cantare e suonare un po’ il sax. E ho scoperto che non solo mi fa bene allo spirito e mi aiuta a tenere duro e ripartire dopo le inevitabili bastonate che si prendono nel mio mestiere, ma anche, e forse soprattutto, la musica mi permette di comunicare in maniera più efficace le stesse cose di cui abbiamo parlato in questa intervista. Sa che noia andare a sentire uno scienziato come me che parla di nanoquì e nanolà, di cancro e di altre sfighe terribili – e infatti non ci va nessuno! Ma se la storia è raccontata in musica, con musicisti bravissimi come quelli che per fortuna vengono ad aiutarmi, allora la comunicazione può raggiungere il cuore (unico posto che conta), creare connessioni vere, e qualche volta lasciare dei segni positivi.
Così, facendo “musical scientifici”, mi trovo a poter comunicare con chi viene a vedere i nostri spettacoli – e sono state migliaia di persone, in questi anni. Attualmente in Italia presento tre spettacoli. Il primo, MoonLanding, è una collaborazione jazz/blues con il pianista arrangiatore Mauro Costantini e le cantanti Barbara Errico, la leggendaria “multi-platino” Mary Griffin e Kim Prevost. Di questo spettacolo è appena uscita la colonna sonora, dello stesso nome, a cura della casa discografica Alfa Music. Lo spettacolo RiconoSCIENZA, con il cantautore Piero Sidoti, racconta avventure scientifiche in chiave leggera, in italiano. E continuo a cantare con la Rhythm and Blues Band di Cividale nel mio mondo d’origine, il Friuli. Negli USA, ho suonato soprattutto con i miei grandi maestri del blues: Texas Johnny Boy e Milton Hopkins, chitarrista per tanti anni al fianco di BB King. I linguaggi musicali nei miei spettacoli cambiano, ma il messaggio resta: Come scienziati, siamo al servizio di chi può beneficiare del nostro lavoro. E allora smettiamola di tirarcela tanto, e «Andiam, andiam, andiam a lavorar», come cantarono dei famosi “nani”, ben prima dei miei!»
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