Si deve a Jan Gødmand Høyer, architetto danese, l’idea del cohousing così come lo conosciamo oggi. Fu lui, negli Anni ’60, a promuovere l’innovativo modello abitativo: una condivisione di spazi che in Italia è arrivata trent’anni dopo ma con un futuro già tracciato
Quando Jan Gødmand Høyer cominciò a lavorare al suo progetto di cohousing era il 1964. Non aveva neppure trent’anni, ma questo giovane architetto danese aveva già colto i segni di qualcosa che vediamo solo oggi: le famiglie si riducevano sempre più (sia in numero che in grandezza); la popolazione era sempre più anziana; decenni di industrializzazione avevano cambiato il volto delle città e delle loro periferie; tempi, modi e ritmi della società erano diventati più complessi.
Høyer aveva osservato il disagio abitativo e le difficoltà nelle relazioni sociali presenti nei grandi condomini di Copenaghen. Voleva trovare qualcosa che risolvesse entrambi i problemi, che ascoltasse le esigenze delle persone, rispondesse ai loro problemi di solitudine. L’ispirazione gli arrivò da una realtà già esistente in Svezia: il kollektivhus. Diffusosi già negli Anni ’30, prevedeva alloggi privati integrati con ampi spazi comuni e servizi condivisi. Tutto condito da un forte senso di comunità tra i residenti. Un modello abitativo che si potrebbe definire un antenato del cohousing. Høyer partirà proprio da qui per arrivare nel 1972 a concretizzare il suo progetto nella comunità di Skråplanet.
All’inizio la “mamma” di tutti i cohousing è composta da una trentina di giovani famiglie in cerca di nuove forme di “buon vicinato”. Le giovani coppie desiderano offrire ai loro figli un modello educativo e un’occasione di crescita alternativi. Ci sono ambienti privati, ma anche tanta comunità grazie agli spazi condivisi. C’è una suddivisione dei compiti proprio come in una grande famiglia, c’è supporto e condivisione negli impegni.
L’esperienza danese di Skråplanet funziona talmente bene che, in poco tempo, comincia a diffondersi nel resto del Nord Europa (Svezia, Olanda, Regno Unito, Germania), Stati Uniti, Canada e arriva persino in Giappone e Australia. Inevitabile un cambiamento di pelle: perché chi decide di intraprendere questa avventura di comunità comincia a farlo per motivazioni sociali, economiche, ambientali. Non c’è più solo il bisogno di creare una piccola comunità di supporto, ma di una con cui condividere un progetto di vita, una visione alternativa al resto del mondo.
In Italia si comincia a parlare di cohousing intorno alla metà degli Anni ’90. In quel periodo si diffondono le prime iniziative che promuovono modelli economici che cercano di dare valore al senso di comunità, che parlano di importanza dei legami sociali e delle relazioni. Un’aspirazione che ha poi investito anche l’aspetto abitativo. Difficile fornire una stima esatta delle iniziative che si ispirano al cohousing nel nostro paese. Si affiancano e sovrappongono tanti altri progetti di vita comunitaria le cui differenze spesso non sono facilmente individuabili. Sotto la definizione di cohousing troviamo uno spettro vastissimo di esperienze e sperimentazioni (ecovillaggi, condomini solidali, comunità di famiglie), tutte unite dal desiderio di ridefinire le politiche dell’abitare attraverso nuove forme di partecipazione.
Di base, però, per potersi definire cohousing una struttura-comunità deve contare su due cose: ambienti privati (appartamenti abitati dalle singole persone o da un nucleo familiare) e ambienti comuni (cucine, sale refettorio, biblioteche, giardini, orti, officine, garage, aule studio, lavanderie, foresterie, etc.). In quest’ultimo caso, il limite è solo uno: la fantasia e il desiderio di condivisione dei suoi abitanti.
Se negli anni l’interesse verso l’abitare condiviso è cresciuto, l’invecchiamento della popolazione ha fatto il resto. Oggi si parla sempre più di senior cohousing, silver cohousing o senior living, versioni pensate per rispondere alle dinamiche demografiche. È l’alternativa per chi cerca una vita all’insegna della condivisione. In effetti, la riduzione della solitudine è uno dei maggiori vantaggi del cohousing per la popolazione anziana. Viverci significa essere circondati da persone con cui condividere interessi ed esperienze, immersi in un ambiente capace di favorire supporto sociale, generare senso di appartenenza, reciprocità, fiducia e sicurezza. Inoltre, la partecipazione ad attività sociali e di volontariato mantiene la mente attiva, aiutando a prevenire il declino cognitivo.
Da questa prospettiva il futuro del cohousing sembra già tracciato, visto che in Italia sta mutando la struttura delle famiglie. Secondo l’Istat, il 10,8% di queste è composto da single over 75 e saranno il 15% entro il 2043. L’isolamento sociale rischia di trasformarsi in un sottoprodotto dell’invecchiamento. E anche se le esperienze di cohousing sul territorio restano frammentarie e preponderanti al Nord, “qualcosa si muove”.
Nel Nord Europa, invece, dove l’investimento nel senior cohousing è maggiore, si cerca di contrastare isolamento e solitudine in età avanzata e favorire l’intergenerazionalità. Accade nella comunità di Sällbo, ad Helsingborg (Svezia), dove un’ex casa di riposo è stata trasformata in un complesso abitativo in cui metà dei residenti ha più di 70 anni, il resto tra i 18 e i 25. Anche “Biloba”, a Bruxelles, è un esempio di senior cohousing. Qui, oltre ad alloggi privati per anziani, ci sono strutture comuni aperte al quartiere.
Dopotutto, il motto di chi decide di intraprendere l’avventura del cohousing è “vivere insieme, da soli”, un delicato equilibrio tra privacy, spazi personali, partecipazione e spazi comuni.
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