Una ricerca dell’Università di Nottingham, pubblicata su Nature Communications, rivela come lo stress pandemico abbia accelerato l’invecchiamento cerebrale di oltre cinque mesi, indipendentemente dal contagio. Un fenomeno che tocca soprattutto le fasce più fragili della popolazione.
L’ombra lunga della pandemia
A più di cinque anni dall’inizio di una crisi sanitaria che ha ridefinito il nostro modo di vivere, continuiamo a scoprire le sue conseguenze più profonde e silenziose. Oltre gli effetti diretti del virus Sars-CoV-2, emerge un quadro complesso legato al prolungato periodo di stress, isolamento forzato, incertezze economiche e lutti che ha caratterizzato la pandemia di Covid-19.
Un nuovo studio, condotto da un team di ricercatori dell’Università di Nottingham e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Communications, getta una luce preoccupante su uno di questi effetti collaterali. Soprattutto sull’accelerazione, misurabile, dell’invecchiamento del cervello umano.
La scoperta più sorprendente non riguarda soltanto chi ha contratto la malattia, ma si estende a tutta la popolazione che ha vissuto quel periodo storico. L’indagine suggerisce che l’esperienza pandemica in sé, con il suo carico di ansia e stravolgimenti sociali, ha lasciato un’impronta biologica sul nostro organo più complesso. E lo ha invecchiato prematuramente. Un dato che ci costringe a ripensare l’impatto della salute mentale e del contesto ambientale sul benessere neurologico a lungo termine, aprendo nuovi interrogativi sulla resilienza del nostro cervello.
L’impatto sull’invecchiamento cerebrale in pandemia
Il cuore della ricerca si basa su un’analisi meticolosa e tecnologicamente avanzata dei dati provenienti dalla UK Biobank, un immenso database biomedico che raccoglie informazioni sulla salute di circa mezzo milione di cittadini britannici.
I ricercatori hanno avuto l’opportunità unica di esaminare le risonanze magnetiche cerebrali di quasi 1.000 adulti, confrontando le scansioni effettuate prima e dopo marzo 2020. Per stimare quella che hanno definito “età cerebrale”, ovvero l’età biologica del cervello rispetto a quella anagrafica, gli scienziati hanno addestrato un modello di machine learning su un campione di oltre 15.000 risonanze di individui sani, realizzate prima della pandemia. Questo strumento ha permesso di creare un modello di riferimento incredibilmente accurato. Applicando questo modello ai partecipanti dello studio, i risultati sono stati netti. Il cervello delle persone che avevano vissuto l’esperienza pandemica mostrava un invecchiamento accelerato, mediamente di 5,5 mesi superiore rispetto al gruppo di controllo le cui scansioni risalivano tutte al periodo pre-pandemico.
Ali-Reza Mohammadi-Nejad, coautore dello studio, ha sottolineato come la vera sorpresa sia stata riscontrare questo fenomeno anche in chi non aveva mai contratto il Covid, a dimostrazione del potente impatto che fattori come l’isolamento e l’incertezza hanno avuto sulla salute cerebrale di tutti. Un approccio “bio-psico-sociale” che evidenzia come la biologia del nostro cervello sia inestricabilmente legata al nostro benessere psicologico e al contesto sociale in cui viviamo.
Le fasce più colpite e la differenza tra invecchiamento e declino cognitivo
L’analisi non si è fermata al dato generale, ma ha approfondito le disuguaglianze con cui questo fenomeno si è manifestato. L’accelerazione dell’invecchiamento cerebrale, infatti, non ha colpito tutti allo stesso modo.
È risultata significativamente più marcata negli individui anziani, nel sesso maschile e, dato di grande rilevanza sociale, nelle persone provenienti da contesti socioeconomici più svantaggiati. Con questo termine i ricercatori intendono persone con bassi livelli di istruzione, condizioni lavorative precarie o difficoltà abitative e sanitarie. Dorothee Auer, autrice principale dello studio, ha spiegato come la pandemia abbia messo a dura prova la vita delle persone, gravando in particolar modo su chi era già in una posizione di svantaggio.
Tuttavia, è fondamentale fare una distinzione cruciale: l’invecchiamento strutturale del cervello non si è sempre tradotto in un calo delle performance funzionali. Lo studio ha infatti rilevato un deterioramento cognitivo misurabile. In particolare, un calo nella flessibilità mentale e nella velocità di elaborazione delle informazioni, soltanto nel sottogruppo di partecipanti che, tra le due risonanze magnetiche, avevano effettivamente contratto il Covid-19. Chi non si è ammalato, pur mostrando segni di invecchiamento cerebrale accelerato, non ha evidenziato cambiamenti cognitivi significativi. Questo suggerisce che il cervello possiede una certa riserva funzionale, ma che l’infezione virale agisce come un ulteriore fattore di stress, capace di intaccare le capacità cognitive in modo più diretto.
Una questione di reversibilità
Con grande onestà intellettuale, gli stessi autori della ricerca hanno evidenziato alcuni limiti del loro lavoro. Trattandosi di uno studio osservazionale, non può stabilire un nesso di causa-effetto definitivo, ma solo una forte correlazione.
Inoltre, la UK Biobank, per quanto vasta, potrebbe non rappresentare in modo completo i settori più emarginati della popolazione britannica. Nonostante queste cautele, i risultati offrono una preziosa fotografia di come un evento di portata globale possa influenzare la salute neurologica a livello di popolazione. La domanda che ora si pongono scienziati e cittadini è se questi cambiamenti siano permanenti. Attualmente, non è possibile dare una risposta certa. Le analisi sono state condotte in due momenti distinti e non è stato ancora possibile valutare un eventuale recupero nel tempo.
La professoressa Auer ha però aperto uno spiraglio di speranza. Ha definendo “incoraggiante” la possibilità che questi effetti non siano definitivi e che il cervello possa dimostrare la sua plasticità e recuperare. Il prossimo passo della ricerca sarà proprio quello di investigare la potenziale reversibilità di questo invecchiamento accelerato, per capire se, una volta superato lo stress acuto della fase pandemica, il nostro cervello sia in grado di “riallineare” la sua età biologica con quella anagrafica.
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