Ritorna con il nuovo album Dove lo sguardo si perde, che propone con nuovi arrangiamenti 11 brani (più un inedito in due versioni) tra i meno noti del suo repertorio
Dove lo sguardo si perde è nato «come condivisione di un pensiero verso l’umanità scartata». Mimmo Locasciulli ha deciso di realizzare un nuovo album quando ha assistito, nel febbraio 2024, in un Teatro alla Scala di Milano stracolmo in ogni ordine di posti «a un evento magico, miracoloso. Mario Brunello (violoncello), Giovanni Sollima (violoncello), Gilles Apap (violino), con l’Accademia dell’Annunciata diretta da Riccardo Doni, hanno dato vita a un concerto con gli archi costruiti con i legni delle barche dei migranti. Un esempio di altissima sensibilità e umanità».
Un esempio che il cantautore abruzzese, ma romano da sempre, ha deciso di seguire. Ha chiamato il figlio Matteo, che da anni vive a Parigi, dove compone musiche da film e per le serie tv in un suo prestigioso studio di registrazione, oltre a essere un contrabbassista di qualità, “commissionandogli” dei nuovi arrangiamenti acustici di una dozzina dei suoi brani. «Il primo step quando ho pensato questo disco», ci dice, «è stato di evitare quelli che hanno avuto più successo. Se no sembrava di fare una specie di best of. Invece ne ho messi di quasi sconosciuti, “Anna di Francia” per esempio, che ha la musica dell’altro mio figlio Guido Elle, che da poco, dopo vent’anni, si è ricordato di fare un secondo album. Sono probabilmente le canzoni che mi fanno più emozionare quando le suono.»
Così il 30 gennaio scorso all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il meritorio progetto “Gli strumenti del mare”, uno di quelli attuati dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, guidata dal Presidente Arnoldo Mosca Mondadori, ha avuto un’ulteriore visibilità. Dopo la prima esibizione del Quartetto Henao al Quirinale nel 2022 con anche il “violino del mare” benedetto da Papa Francesco e poi finito in esposizione a Cremona a fianco degli Stradivari e degli Amati, dopo il concerto sull’isola di Lampedusa dell’orchestra Cherubini diretta da Riccardo Muti nel 2024, i vari recital della bresciana Orchestra del Mare, i doni di chitarre a Vasco Rossi e Sting, è stato il turno di Locasciulli.
Il Quartetto Pessoa suonava violini, viola e violoncello costruiti, sotto la guida di liutai esterni, dai detenuti delle carceri di Opera (Milano) e Secondigliano (Napoli) con i resti lignei dei natanti naufragati sulle coste dell’isola di Lampedusa, conservandone i colori originali. Con loro e Matteo al contrabbasso, Mimmo, seduto al pianoforte, ha proposto il suo repertorio da cantautore a denominazione d’origine controllata – non a caso il glorioso Folkstudio di Roma, da cui ne sono usciti a decine a cominciare da Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Rino Gaetano, Grazia Di Michele, Sergio Caputo e via dicendo – fatto di canzoni piene di liriche ben assortite, personali ed esistenziali, senza sfoghi e cariche di sensibilità.
Brani come “Idra”, “Tutto bene”, “Odor di maggio”, “La faccia delle altre persone” e l’inedita “L’amore dov’è”, che apre e chiude il cd Dove lo sguardo si perde in due differenti versioni, mostrano come nel modo di fare musica di Mimmo confluiscono elementi vari. Venature country e gusto per la ballad, citazioni blues e invenzioni swinganti, oltre agli arrangiamenti classicheggianti e il pianoforte jazzy, arricchiscono di colori senza mutare la tinta di fondo schemi tipicamente da cantautore old style dall’intima malinconia. Una malinconia che appare sempre rassicurante e gradevole, per quel suo non estremizzare mai le sensazioni di un’ispirazione lineare, poetica e armoniosa.
Il disco, e la tournée teatrale da poco iniziata, festeggiano anche il cinquantennale di attività di Locasciulli, che debuttò su nel 1975 con il LP dal titolo profetico Non rimanere là, primo disco dell’etichetta Folkstudio. «Mi ricordo ancora il numero, FK5001, solo voce e chitarra, registrato in quattro ore. È stato il sogno realizzato, pieno di entusiasmo e purezza. Poi in 50 anni ho pubblicato 21 dischi, di cui 18 di canzoni inedite, non sono stato così iperattivo. In tanti per molto tempo hanno pubblicato un disco all’anno, io però non mi accontento mai. Poi se avessi una varietà maggiore di argomenti, scrivessi anche di storia o di evasione totale, insomma avessi una gamma maggiore di merce da presentare, sarei istintivamente portato a scrivere di più. Se sei più monotematico, se per certi versi fai sempre lo stesso discorso, cerchi almeno di proporlo in maniera diversa.»
In effetti è dal 2018 che aspettiamo un album di canzoni nuove…
(sorride) «Anch’io…»
Cosa succede? L’avanzare dell’età rende più critici verso sé stessi oppure proprio si diventa meno prolifici, meno creativi?
«Né l’una né l’altra. Mi ricordo che a vent’anni scrivevo 10 canzoni al giorno e ne buttavo 11. Essere prolifico non vuol dire avere qualità. La fantasia è la stessa, l’attitudine allo scrivere è la stessa. Sono molto severo, più severo, è vero. Tu sei autoreferente, dici “ecco ho scritto 12 canzoni adesso le lavoro”, ma non è così, perché poi devono rispondere ai tuoi requisiti, alla coerenza, all’attendibilità, e si devono appiccicare anche a quello che stai ascoltando in quel momento.
Però c’è un’altra componente. Prima la discografia era attrattiva, adesso è respingente, perlomeno per le persone come me. Scrivere adesso che siamo nell’epoca della velocità estrema vuol dire mettere la tua canzone in mezzo a un milione, due milioni, cento milioni di canzoni da poter ascoltare con un clic sul telefonino. Questo ti porta a non affezionarti a una canzone, perché hai un’offerta infinita. Subito dopo ne ascolti un’altra e dopo una settimana l’hai scordata, soprattutto i ragazzi.
Noi risparmiavamo sul cinema, sul gelato e sulla coca cola per andare a comprare “il” disco che ci piaceva. Di riflesso chi faceva dischi aveva i suoi fans, i suoi ammiratori, i suoi amici. Oggi no, oggi tu fai un disco e va a finire in un blog. Non solo la discografia, è proprio l’industria discografica che è respingente per persone come noi.»
Con l’avanzare dell’età i sogni, i desideri, le possibilità si riducono di dimensione e di valore. C’è un modo per cercare di resistere a questo progressivo ridursi degli orizzonti, anche di speranza?
«L’ho scritto in vari modi che la strada a vent’anni davanti era lunghissima e quella dietro corta, mentre oggi è il contrario. Il sogno, la fantasia, la speranza restano, ma naturalmente devi essere cosciente che le possibilità, in qualunque forma, di qualunque tipo, a 30 o 40 anni, sono molto diverse da quelle di oggi. Per me il terno al lotto adesso è di continuare a fare quello che mi piace senza le aspettative che avevo quando facevo i dischi a 30 anni.
Dopo 50 anni cosa vuoi fare più quello che hai fatto, che è stato tanto? Ho fatto per tutta la mia vita il medico, ho smesso di fare interventi chirurgici con il covid, e il musicista. Ho raccolto le soddisfazioni professionali che mi sono potuto permettere da una parte e dall’altra. Adesso frequento ancora la musica perché mi piace, ascolto tutta la musica possibile, mi focalizzo di più su quella che mi emoziona. Mi piace suonare, non frequentare l’ambiente dell’industria discografica. Quando fai un disco raccogli tutto in un contenitore se c’è la stima, se c’è la soddisfazione, non per il successo.
Il massimo livello che ho raggiunto nelle classifiche è stato il 19esimo posto, non ho mai sfondato. Però dopo 50 anni ci sono ancora, continuo a fare dischi e concerti, prendo il Premio Tenco alla carriera (nell’ottobre scorso, ndr.), quando molti che hanno venduto centinaia di migliaia di copie non ci sono più. Chi altri c’è? Francesco De Gregori, Vasco Rossi, Claudio Baglioni, le pietre miliari. Sono stato coerente nel non fare mai cose per sfondare le classifiche, complice il mio ruolo ospedaliero che non me lo permetteva, e ne sono contento. La mia vita è stata quella che desideravo.»
Foto @JuliaFoster
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