Una ricerca della Mayo Clinic su 2.750 persone rivela come i disturbi del sonno accelerino il declino cognitivo, con particolare rischio per i portatori del gene APOE4.
Quando il sonno perduto compromette la mente
Il legame tra insonnia cronica e deterioramento cognitivo non è più soltanto un sospetto medico, ma una realtà scientificamente provata.
La ricerca condotta da Diego Z. Carvalho e il suo team presso la Mayo Clinic ha esaminato 2.750 adulti cognitivamente sani, documentando per la prima volta come l’insonnia persistente – definita come difficoltà nel dormire per almeno tre giorni alla settimana per tre mesi consecutivi – produca effetti misurabili sull’accelerazione del declino cerebrale. I risultati, pubblicati sulla prestigiosa rivista Neurology, mostrano che l’insonnia incrementa il deterioramento dei punteggi cognitivi globali di 0,011 punti ogni anno.
Questo dato, apparentemente modesto, nasconde una realtà preoccupante quando proiettato su scala temporale più ampia.
Durante il follow-up mediano di 5,6 anni, il 14% dei partecipanti con insonnia cronica ha sviluppato deterioramento cognitivo lieve o demenza, rispetto al 10% di coloro senza disturbi del sonno. La differenza del 4% potrebbe sembrare contenuta, ma tradotta sulla popolazione italiana di oltre 65 anni – che secondo i dati ISTAT 2025 rappresenta quasi 15 milioni di persone – significherebbe centinaia di migliaia di casi aggiuntivi di demenza direttamente collegabili ai disturbi del sonno.
I meccanismi neurobiologici dell’insonnia
L’insonnia non danneggia il cervello attraverso un unico meccanismo, ma agisce come un attacco coordinato su più fronti. La ricerca ha identificato almeno due pathway principali attraverso cui il sonno disturbato accelera la neurodegenerazione.
Il primo coinvolge l’accumulo di placche amiloidi, le proteine tossiche caratteristiche della malattia di Alzheimer che si depositano progressivamente nel tessuto cerebrale. Il secondo meccanismo, forse ancora più insidioso, riguarda il danneggiamento dei piccoli vasi sanguigni che irrorano il cervello.
L’utilizzo di tecniche di neuroimaging avanzate ha permesso agli scienziati di osservare questi cambiamenti in tempo reale. Quando l’insonnia si accompagna a una riduzione significativa del sonno totale, le scansioni cerebrali mostrano una performance cognitiva peggiore già alla valutazione iniziale, insieme a un carico maggiore di iperintensità della sostanza bianca – lesioni che indicano un danno vascolare – e un incremento dell’accumulo di amiloide rilevabile attraverso PET scan.
Particolarmente vulnerabili risultano i portatori del gene APOE4, variante genetica che aumenta drasticamente il rischio di Alzheimer e che mostra declini cognitivi ancora più pronunciati in presenza di insonnia cronica.
Una popolazione a rischio
L’Italia presenta uno scenario demografico che rende questa scoperta scientifica particolarmente allarmante. Circa un quarto della popolazione italiana (24,7% al 1° gennaio 2025) ha almeno 65 anni, con una crescita significativa degli ultraottantenni che superano quota 4,59 milioni. Il valore dell’indice di vecchiaia italiano al 2023 è di 193,1 persone ultrasessantacinquenni ogni 100 giovani con meno di 15 anni, posizionando il nostro Paese tra i più invecchiati al mondo.
Questi numeri assumono una dimensione ancor più critica se incrociati con le proiezioni sulla demenza. Secondo le stime internazionali, entro il 2050 a soffrire di demenza senile saranno 153 milioni di persone nel mondo, mentre in Italia le proiezioni demografiche indicano che nel 2051 ci saranno 280 anziani ogni 100 giovani, con un conseguente aumento di tutte le malattie croniche legate all’età, incluse le demenze.
La ricerca della Mayo Clinic rivela inoltre un aspetto bidirezionale del problema. L’invecchiamento stesso può promuovere l’insonnia riducendo la pressione omeostatica del sonno, probabilmente a causa della diminuita sensibilità all’adenosina, il neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione del ciclo sonno-veglia. Simultaneamente, l’invecchiamento è associato a una ridotta ampiezza del ritmo circadiano, compromettendo la naturale propensione al sonno nei momenti desiderati della giornata.
Oltre i farmaci, la qualità del sonno come medicina
Una delle scoperte più significative dello studio riguarda l’inefficacia relativa dei trattamenti farmacologici tradizionali. L’uso di farmaci ipnotici non è risultato associato né al miglioramento dei punteggi cognitivi né alla riduzione dell’incidenza di deterioramento cognitivo. Questo dato suggerisce che l’effetto protettivo del sonno dipende dalla qualità del riposo piuttosto che dalla semplice sedazione farmacologica, aprendo nuove prospettive terapeutiche.
I ricercatori hanno identificato anche situazioni paradossali: quando l’insonnia era associata a un sonno più prolungato – possibile indicatore di remissione sintomatologica – si registrava un minor carico basale di iperintensità della sostanza bianca, suggerendo che il cervello può beneficiare del recupero anche tardivo di un sonno di qualità. Questa osservazione indica che non tutto è perduto per chi soffre di insonnia cronica, purché si intervenga tempestivamente sui meccanismi che regolano il riposo notturno.
Le implicazioni cliniche di questa ricerca puntano verso la necessità di un approccio proattivo nella valutazione dei disturbi del sonno negli anziani. L’insonnia cronica non può più essere considerata un semplice disturbo del benessere, ma deve essere riconosciuta come un fattore di rischio modificabile per il declino cognitivo e la demenza, al pari dell’ipertensione o del diabete.
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