Si impara facendo: questo è sempre vero e lo è tanto più quando parliamo di gentilezza. Modelli positivi e azioni gentili sono gli strumenti principali che prima di tutto i genitori dovrebbero utilizzare. Intervista alla psicologa dell’età evolutiva Cristiana Guido
«Diventiamo giusti compiendo azioni giuste, temperanti compiendo azioni temperate, coraggiosi compiendo azioni coraggiose», insegnava molto tempo fa il filosofo Aristotele (Etica Nicomachea). E così, per essere persone gentili, o diventarlo, bisogna compiere azioni gentili: anche piccole, semplici gesti, che facciano sperimentare il piacere e il benessere che derivano dalla gentilezza.
Ne è convinta Cristiana Guido, psicologa clinica, PhD in Psicologia sociale dello sviluppo e della Ricerca Educativa, perito del Tribunale di Roma. «Tutte le psicoterapie di nuova generazione si occupano di compassione, che significa “sentire con l’altro”, entrare in risonanza emotiva. Essere gentili – o, come nel mio caso, aiutare gli altri ad esserlo, oppure a diventarlo – significa proprio questo: mettersi nei panni dell’altro e comportarsi di conseguenza».
Ma come si insegna questo a un bambino o a una bambina, oppure a un adolescente?
Molto utili e molto diffuse sono oggi le cosiddette ‘pratiche compassionevoli’ della Mindfulness, che inducono proprio a entrare in risonanza emotiva con l’altro, vedendolo come persona. Siamo sempre tutti molto presi da noi stessi, dagli stimoli continui, dagli impegni, dall’iperstimolazione dei social: è difficile quindi stare con l’altro, entrare in connessione profonda. Paul Gilbert ha portato in Italia la “Compassion focus therapy”, che ha lo scopo di stimolare la sensibilità verso la sofferenza propria e altrui, unita all’impegno per prevenirla o alleviarla.
Sono pratiche che possono essere utilizzate anche a scuola?
Certamente, in ambito scolastico sarebbero molto efficaci, anche come fattore di prevenzione rispetto alla violenza oggi tanto diffusa: da quella di genere al bullismo, fino alla criminalità giovanile. Educare i ragazzi e le ragazze a mettere in pratica la gentilezza porta all’alfabetizzazione emotiva. Imparare a mettersi nei panni dell’altro è un modo per prevenire la violenza. Iniziare a scuola, fin dai primi anni, sarebbe l’ideale, ma la nostra scuola da questo punto di vista è piuttosto bloccata e impenetrabile.
E i genitori, cosa possono fare per educare alla gentilezza i propri figli?
Innanzitutto attraverso il modello: gli adulti insegnano ai bambini soprattutto con l’esempio. Per crescere figli gentili, bisogna partire dalla cura del tono, delle parole, del linguaggio familiare. Bisogna dare valore emotivo alle parole, ascoltare gli stati d’animo senza giudicare. E poi dare modo di ‘agire’ la gentilezza: coinvolgere i figli all’interno della collaborazione domestica e offrire rinforzi gratificanti, ma anche affrontare insieme le emozioni, comprese quelle negative, perché si possa imparare a gestirle con rispetto.
Essere gentili crea anche uno stato di benessere, dal punto di vista della salute mentale?
Certo, la gentilezza è collegata, anche dal punto di vista biologico, al sistema calmante. Sempre Gilbert ci insegna che se l’ambiente familiare è sicuro, l’atteggiamento è gentile, il bambino, così come l’adulto, sente una calma interiore. Se invece l’ambiente è teso, stressante, allora entra in gioco un sistema di minaccia, che può scatenare reazioni e agiti violenti. Ci sono molti studi in proposito, tra cui quelli di Barbara Fredrickson, secondo cui la gentilezza attiva circuiti di gratificazione, amplia la prospettiva e potenzia le emozioni positive. La grande sfida è quindi potenziare competenze esecutive trasversali, tra cui la gentilezza, come “soft skills”.
Dal suo punto di vista, i genitori colgono l’importanza di questo aspetto? E sono disposti a investire in questo compito educativo?
Dai parent training che conduco, mi rendo conto che la volontà c’è. Mancano però le strategie: i genitori non hanno gli strumenti per affrontare quello che vive il ragazzo all’esterno. E i ragazzi oggi sono molto esposti a situazioni a rischio e messaggi opposti e contrari alla gentilezza: non solo per quello che vivono e che vedono nella realtà che li circonda, ma anche per le notizie che ricevono senza intermediazioni e per i contenuti con cui entrano in contatto tramite i social e internet. In questo senso, credo che, laddove possibile, i genitori dovrebbero esercitare un maggiore controllo, per evitare che i figli, soprattutto quando sono piccoli, siano esposti a messaggi e immagini che non siano in grado di elaborare e da cui non sappiano quindi prendere la giusta distanza. Al tempo stesso, però, penso che ci dovrebbe essere una maggiore consapevolezza e responsabilità collettiva, soprattutto da parte di chi produce contenuti multimediali e informativi, nell’ottica di un maggiore riguardo verso la sensibilità dei bambini e dei ragazzi. E poi, bisognerebbe aiutare i genitori ad acquisire gli strumenti e le strategie che servono per educare i figli alla gentilezza.
In che modo?
Io credo molto nella formazione e la sensibilizzazione. Per esempio, così come esistono i corsi di preparazione al parto, dovrebbero esistere occasioni formative per i genitori dopo la nascita, che diano loro proprio la possibilità di acquisire strategie.
Quali strategie educative potrebbero essere utili, per educare un figlio o una figlia alla gentilezza?
Innanzitutto, come dicevamo, l’esempio. E poi, fornire occasioni anche molto semplici per praticare la gentilezza: penso alle classiche “buone azioni”, che rafforzano l’autostima e l’autoefficacia e fanno sperimentare al bambino o alla bambina la bellezza e il benessere dell’essere gentile.
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