Il caso della famiglia nel bosco di Vasto sotto indagine dopo un’intossicazione da funghi riapre il dibattito sull’istruzione parentale, fenomeno triplicato in Italia dal 2019 a oggi. Quanto è libera la scelta dei genitori e dove inizia la responsabilità dello Stato?
Tre bambini, un bosco e nessuna presa elettrica
Nell’entroterra di Vasto, tra le colline abruzzesi dove il tempo sembra essersi fermato a un’epoca preindustriale, vivono una madre australiana, un padre britannico e tre figli piccoli. Otto anni la bambina più grande, sei i due gemelli. La loro casa è un’ex colonica restaurata in modo spartano. Niente allaccio alla rete elettrica, solo un pannello solare per le esigenze basilari. L’acqua arriva da un pozzo, il cibo da orti e animali da cortile. Non hanno una residenza anagrafica registrata, né bollette intestate. I tre bambini non hanno mai varcato la soglia di una scuola pubblica, perché studiano a casa seguendo l’istruzione parentale, quel modello educativo che la legge italiana permette e che ogni anno coinvolge migliaia di famiglie.
La loro esistenza al limite della società organizzata sarebbe rimasta nell’ombra se non fosse successo l’imprevisto: un’intossicazione da funghi raccolti nel bosco ha costretto la famiglia a chiamare i soccorsi. L’intervento sanitario ha aperto uno spiraglio su un mondo che molti ignorano e che altri guardano con sospetto. I servizi sociali, allertati dalla Procura per i minorenni dell’Aquila, hanno condotto sopralluoghi accurati. Ed hanno trovato un ambiente ordinato ma essenziale, privo di stimoli esterni, di contatti con coetanei, di supporti didattici strutturati.
I genitori hanno mostrato la documentazione degli esami annuali di idoneità, obbligatori per legge, e spiegato che i figli seguono programmi calibrati sui loro ritmi naturali, alternando studio, lettura e vita all’aria aperta. Eppure la Procura ha sollevato dubbi sul percorso educativo dei minori e ha chiesto al Tribunale la sospensione temporanea della responsabilità genitoriale, ritenendo possibile un pregiudizio per lo sviluppo sociale e affettivo.
La decisione finale è ancora in sospeso, ma il caso ha già riaperto una discussione mai davvero conclusa.
Fino a dove arriva il diritto dei genitori di educare i figli come preferiscono, e dove comincia il dovere dello Stato di garantire che ogni bambino riceva un’istruzione adeguata?
Homeschooling in Italia: cosa dice la legge
L’istruzione parentale in Italia non è un’invenzione recente né un vuoto normativo. Ha radici costituzionali precise.
L’articolo 30 affida ai genitori il dovere di educare i figli, mentre l’articolo 34 stabilisce che l’istruzione inferiore deve essere obbligatoria e gratuita. Da questo equilibrio nasce un principio chiaro. I genitori possono scegliere modalità alternative alla scuola pubblica, ma lo Stato deve verificare che l’apprendimento avvenga davvero. Il decreto legislativo 62 del 2017 e le successive linee guida ministeriali fissano le regole operative.
Chi sceglie l’homeschooling deve presentare ogni anno una dichiarazione formale al dirigente scolastico del territorio, autocertificando di possedere le capacità tecniche, economiche e culturali necessarie. Inoltre, i minori devono sostenere annualmente un esame di idoneità in un istituto pubblico per verificare il raggiungimento degli obiettivi previsti dai programmi nazionali. Se l’esame non viene superato o non viene affrontato, scatta la segnalazione alle autorità competenti.
Secondo quanto riportato dall’associazione LAIF, che riunisce le famiglie che praticano istruzione in famiglia, il sistema si regge su un equilibrio delicato fatto di collaborazione e fiducia reciproca. Non esistono ispettori dedicati né controlli a sorpresa nelle case: tutto passa attraverso la scuola di riferimento, che deve verificare annualmente la preparazione dei ragazzi. Questo approccio lascia margini di discrezionalità ampi.
In alcune regioni le scuole hanno creato sportelli specializzati e protocolli chiari per gestire gli esami di idoneità, facilitando il dialogo con le famiglie. In altre zone mancano linee guida operative e i genitori si trovano a dover negoziare ogni anno modalità e tempistiche, affrontando incomprensioni e resistenze burocratiche.
Un fenomeno cresciuto nella pandemia
I numeri dicono che l’homeschooling non è più una scelta di nicchia. Nell’anno scolastico 2018-2019 gli studenti in istruzione parentale erano circa cinquemila. Due anni dopo, nel pieno della pandemia e della didattica a distanza, erano arrivati a oltre quindicimila. Un aumento del 200% in meno di tre anni.
Le rilevazioni più recenti, raccolte da LAIF nel 2024, confermano che la crescita non si è arrestata: oltre il 60% degli homeschooler frequenta la scuola primaria, il 10% la secondaria superiore, e circa tre famiglie su quattro risiedono nel Nord Italia. Nel 78% dei casi la scelta riguarda tutti i figli del nucleo familiare, segno che non si tratta di una decisione presa per emergenza ma di una scelta pedagogica consapevole.
Il lockdown ha avuto un ruolo determinante. Per milioni di famiglie italiane la didattica a distanza è stata un’esperienza traumatica, ma per alcune ha rappresentato una scoperta. L’apprendimento può avvenire anche fuori dall’aula, con tempi più flessibili e strumenti digitali accessibili. Molte hanno deciso di non tornare più alla scuola tradizionale.
Il profilo medio di chi sceglie l’homeschooling è definito con precisione dalle indagini di LAIF. Oltre il 70% dei genitori ha una laurea, nel 55% dei casi uno dei due lavora da remoto, e il reddito familiare è leggermente superiore alla media nazionale. Anche se spesso si tratta di nuclei monoreddito che rinunciano a consumi per investire tempo nell’educazione dei figli.
Le donne sono in prima linea: in sette casi su dieci sono loro a coordinare le attività didattiche quotidiane. Dal punto di vista geografico, l’istruzione parentale si concentra in Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, ma nelle aree rurali del Sud emergono motivazioni diverse: lontananza dalle scuole, mancanza di servizi educativi, convinzioni religiose radicate.
Dove si trova il confine della libertà educativa
Il caso della famiglia anglo australiana in Abruzzo ha sollevato una domanda che va oltre la legittimità formale dell’istruzione parentale. E’ sufficiente garantire l’apprendimento di contenuti scolastici, o lo Stato deve preoccuparsi anche dello sviluppo sociale ed emotivo dei minori?
I servizi sociali intervenuti hanno evidenziato l’assenza di contatti con coetanei, la mancanza di stimoli esterni strutturati, la vita condotta in un ambiente isolato e privo di relazioni al di fuori del nucleo familiare. Per quanto i genitori abbiano prodotto documenti sugli esami annuali, il dubbio riguarda la qualità complessiva della crescita dei bambini, non solo la loro preparazione scolastica.
L’istruzione parentale, per come è concepita dalla legge italiana, non impone ai genitori di garantire la socializzazione in modo esplicito. La norma si concentra sull’apprendimento e sulla verifica periodica delle competenze. Eppure la Costituzione, quando parla di educazione, non si riferisce solo alla trasmissione di nozioni ma a un processo più ampio che include lo sviluppo della personalità e la preparazione alla vita sociale. Questo squilibrio normativo lascia aperte molte domande.
LAIF propone da tempo l’istituzione di una banca dati nazionale sugli studenti in istruzione parentale e la definizione di protocolli uniformi per i controlli, in modo da garantire trasparenza e parità di trattamento sul territorio. Secondo l’associazione, la maggior parte delle famiglie homeschooler non vive in isolamento: partecipa a gruppi di studio condivisi, laboratori extrascolastici, attività sportive e culturali. L’isolamento assoluto è un’eccezione, non la regola.
Il nodo, però, resta politico e culturale. L’homeschooling rimette in discussione l’idea di scuola come unico luogo dell’apprendimento e della socializzazione. Per alcuni rappresenta un’opportunità di personalizzazione e libertà pedagogica, per altri un rischio di frammentazione sociale e di esposizione dei minori a visioni del mondo chiuse o settarie. La vicenda di Vasto non offre risposte definitive, ma ricorda che la libertà educativa non può mai coincidere con l’assenza di responsabilità pubblica.
Lo Stato italiano ha scelto di riconoscere l’istruzione parentale, ma ha anche il dovere di verificare che quel riconoscimento non si traduca in abbandono dei minori o in negazione dei loro diritti fondamentali.
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