Chiara, Arianna, Gregorio e Paolo spiegano come – secondo loro – dovrebbe funzionare oggi la scuola. Sono neodiplomati e con ‘quattro comandamenti’ disegnano l’istituzione del futuro. Giacomo è un videomaker e, dopo aver realizzato un documentario sulla povertà di Borgo Mezzanone a Foggia, ha deciso di tornare nel ghetto e aprire una scuola per stranieri. Altri giovani, dal destino incerto perché senza famiglia e fuori dal circuito di accoglienza, hanno trovato impiego presso un ristorante sul mare. Queste storie le raccontiamo nelle pagine di ‘Speciale giovani’, poco più avanti. Le abbiamo scelte perché ognuna – a modo suo – racconta una piccola rivoluzione; ognuna è testimonianza di quanto il coraggio e l’audacia possano cambiare una condizione, renderla migliore; ognuna dimostra che la realtà supera lo stereotipo. E di stereotipi sui giovani ce ne sono tanti. Molto fa anche la persona o le categorie che etichettano i gruppi. Una decina di anni fa, una ex ministra, nel mezzo di un incontro pubblico ha definito i giovani choosy (pignoli, ndr). Qualche anno prima di lei, ci aveva pensato un altro ex ministro a dare titoli parlando di ‘giovani bamboccioni’. Fortunatamente, entrambe le ‘uscite’ non ebbero l’effetto che i due avevano sperato e, da parte loro, ci furono anche delle scuse. È troppo facile, oggi, riferirsi ai giovani come a ragazzi che hanno poche idee e pochi obiettivi, che chiedono in regalo sneakers da trecento euro, che trascorrono il loro tempo davanti ai videogiochi, che rifiutano lavori perché non hanno voglia di svegliarsi presto, che vivono notte e giorno sui social media. Sgomberiamo subito il campo da ogni dubbio: i giovani così esistono, esistono eccome ma non possono e non devono rappresentare la totalità. Esistono anche giovani che studiano, giovani che lavorano e giovani che fanno tutte e due le cose contemporaneamente perché la precarietà – ci piaccia o no – è ben lontana dall’essere sconfitta. Stringono tra le mani un megafono e gridano il rispetto dei loro diritti, siedono a tavoli politici e rappresentano componenti di partito che scrivono documenti programmatici; lottano per la tutela dell’ambiente; si distinguono nell’ambito della ricerca al pari se non di più dei loro coetanei europei. I giovani non vanno giudicati, i giovani vanno ascoltati, soprattutto i figli del nostro tempo perché sono pionieri di una condizione che ancora si porta dietro delle conseguenze. La pandemia e l’isolamento che ne è derivato ha compromesso tanto della socialità, delle aspettative e dei sogni di quei ragazzi costretti a non uscire di casa e incontrarsi solo attraverso piattaforme online. Ecco, dunque, che entra in gioco la responsabilità degli adulti: abbiamo il dovere di costruire ponti. Dare fiducia ai giovani significa anche ascoltare le loro critiche, comprenderne le ragioni e, se necessario, ammettere i nostri errori. Non possiamo aspettarci che accettino senza recriminare nulla di un mondo che non hanno contribuito a plasmare e che, in molti casi, mostra evidenti segni di squilibrio e ingiustizia. Dobbiamo imparare da loro, dalla loro capacità di adattamento, dalla loro visione fresca e non convenzionale. Solo così potremo costruire un dialogo autentico e proficuo, che permetta a tutte le generazioni di collaborare per un futuro migliore. E se smettiamo di etichettarli, potremo finalmente vedere il loro vero, immenso valore.
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