Sono pochi gli episodi della mia lunga lunga vita per cui provo rimorso. I conti che faccio ciclicamente con me stessa mi rimandano coerenza e una certa armonia. Provo rimorso soltanto per quel giorno in cui, nel corso di una manifestazione – credo per il 25 aprile – gridai, con convinzione sonora, il seguente slogan: “per i fascisti non basta una sfilata/prognosi prognosi riservata”. Il pugno chiuso, i ‘cordoni’ formati da un intreccio di braccia fra compagni, è tutto un bel ricordo, non quella frase. Quel modo superficiale di augurare il male, sotto la forma spaventosa e realistica della malattia, della terapia intensiva. È un brutto ricordo. Non avrei dovuto, non dovevo, non si fa. Avevo sedici anni e una incrollabile fede antifascista. Avevo sedici anni e non era ancora cresciuta, dentro di me, la malapianta dell’empatia. Ho dovuto maturare parecchio per imparare a non augurare sofferenza, mai, neanche agli avversari. Ho dovuto diventare vecchia per capire che non esiste ‘il nemico’, ma soltanto l’avversario. E che l’avversario è da combattere con le parole e con l’esempio, mai con calci e pugni e spranghe, meno ancora con carrarmati e droni, bombe e mine antiuomo. Oggi, felicemente insediata nel terzo tempo mentre ribollono le guerre attorno a me, oggi che la terra trema e saltano tutti i fragili meccanismi che hanno, fin qui, garantito una pace nervosa ma solida, oggi, l’empatia è diventata, per me, causa di un sordo dolore costante, come un sottofondo di lutto che impedisce ogni allegria, ogni desiderio.
Mentre sono qui che scrivo, stanno morendo decine di bambini; prima che la rivista su cui scrivo sia stampata e distribuita, altre famiglie saranno sterminate, altri ospedali bombardati, altri prigionieri torturati. Sento il pianto delle madri. Lo sento. È una voce flebile e terribilmente nitida che mi impedisce di ragionare, di dividere il mondo in zone d’influenza, di confrontare la strage del 7 ottobre con la distruzione sistematica di Gaza e dei palestinesi (anche quelli più piccoli). È un pianto leggero e senza speranza, che mi allontana dal pollaio televisivo, da quel ring artificioso in cui tutti ce l’hanno con tutti e non puoi criticare Netanyahu senza sentirti dare dell’antisemita. Anche questo scambio di accuse farlocche è violenza. È violenza continuare a spedire armi sempre più mortifere in Ucraina, perché l’Ucraina ha bisogno che la guerra finisca e la Palestina ha bisogno che la guerra finisca e il popolo di Israele ha bisogno che la guerra finisca. E io, e voi che mi state leggendo e tutti noi abbiamo bisogno che la guerra finisca, ma finché si investono miliardi per armare chi deve difendersi e chi vuole rispondere ai suoi aggressori e chi vuole vendicarsi per essere stato aggredito (credete che sia facile operare questi sottili distinguo?) la pace non si farà. La pace non svuoterà i teatri di guerra. E continueremo a essere circondati, condizionati e sopraffatti dalla violenza. Basterebbe applicare un comando semplice ed edificante, che conosciamo fin da quando eravamo bambini: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Basterebbe questa frase che è un progetto di vita, a far tacere i cannoni. Ma naturalmente il mondo-mercato fa affari con le guerre e non vuole eliminare, perciò, le guerre, dal suo vocabolario triste. Da un vocabolario che vede la parola ‘profitto’ più gettonata della parola ‘amore’. No, non fate quella faccia buffa, non consegnatevi al vostro stupore, ve la leggo negli occhi la domanda di rito: “Ma come? Quella di Porci con le ali è diventata buddista, è diventata cattolica, ha avuto una crisi mistica, si è ravveduta, si è rimbecillita, si è convertita?”.
No, non mi sono convertita. Mi sono pentita. E mi sono pentita così, liberamente, senza sconti di pena, mi sono pentita di aver sottovalutato il veleno che la violenza sparge sulle nostre vite, nelle relazioni famigliari, a scuola, nei posti di lavoro. Per le strade.
Oggi, lo confesso, non sopporto più neppure chi alza la voce, chi spinge, chi deride i più deboli, chi non sta al suo posto nella fila d’attesa, chi provoca per divertirsi, chi giudica senza pensare, chi interrompe chiunque stia parlando o cercando di parlare. Non sopporto più chi vuole mettere una divisa alla pietà, una divisa, una bandiera, un colore, e usarla per continuare a schierarsi. La pietà, la compassione, la pena non accettano di indossare una livrea, non le puoi irreggimentare, sono sentimenti profondi e profondamente liberi, rispondono soltanto alla coscienza di chi li prova. E fanno male. Se ti metti nei panni di chi ha avuto la sua casa disfatta e rasa al suolo dalle bombe, se senti il pianto delle madri, delle nonne che non hanno potuto proteggere i loro piccoli, non hai più voglia di discutere, di prevedere, di esecrare o di commentare, vuoi soltanto unirti a quel pianto e offrire il tuo dolore, perché non hai nient’altro da dare.
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