Il fondatore dei Subsonica, che si apprestano a festeggiare i trent’anni di attività, ha da poco pubblicato il suo quarto lavoro da solista. Lo abbiamo intervistato
«Arrivare a cinquant’anni è un momento oggettivamente importante. La maggior parte di ciò che dovevi fare in questa vita l’hai fatto, inizia la parte più affascinante della selezione. Devi cercare di fare sempre meglio, di migliorarti sempre di più, perché bisogna dare qualità al tempo, nelle relazioni e in quello che ancora ti manca nel progetto di vita che hai immaginato da quando eri bambino, ragazzo e via via crescendo».
Ha compiuto il 27 settembre scorso il fatidico mezzo secolo di vita Davide Dileo, che tutti conoscono con il soprannome di Boosta. Il musicista, compositore e produttore (e anche scrittore, deejay, comunicatore culturale, regista) di Torino è sulla ribalta dalla fondazione dei Subsonica, nel 1996. Con la band ha realizzato finora dieci album in studio e tre dal vivo di un rock pulsante e alternativo, irrorato di ritmi elettronici, di sensibilità melodica e di venature down beat. Da solista invece, oltre a scrivere brani per Mina, Malika Ayane, Tricky, ha proposto quattro lavori a suo nome. Facile del 2020 è entrato nelle classifiche di musica classica e il recente Soloist sta per farlo con il suo mix di pianoforte solo, manipolazioni elettroniche e musica d’ambiente.
«Queste sono definizioni necessarie per definire quello che è uscito, ma quando scrivi non te ne accorgi», continua Boosta. «Questa triplice veste è venuta fuori anche per me riascoltando il cd, quando ho percepito di aver messo tre vestiti diversi al mio comporre musica. Le definizioni servono perché ti catalogano e rendono più facile il racconto, però non sono un ragionamento a priori. Tu metti quello che hai in testa e nel cuore e poi ti accorgi che ha una forma precisa. È anche affascinante avere in testa un disco, scriverlo e renderti conto di quello che hai fatto solo nel momento in cui lo ascolti».
Facile esprimeva il suono del silenzio, della pandemia e della solitudine. Le Post Piano Sessions sono soprattutto ricerca e sperimentazione. Possiamo dire che Soloist è un punto di arrivo?
No, è il terzo punto di partenza. Sono felicissimo di averlo compiuto e di essere arrivato a mettere in moto un nuovo cammino. È sempre una lettura su due fronti. Quando arrivi a stampare un disco hai chiuso quello che hai fatto, però hai finito un punto di partenza, perché è tutto in movimento e si continua a cercare fino a quando non si trovano nuove soluzioni. Quali saranno? Non lo so, intanto cerchiamo.
Nei suoi album da solista le macchine sostituiscono i musicisti. Quali i vantaggi e gli svantaggi?
Le macchine fanno parte del capitolo tecnologia, che è sempre stata uno strumento nelle mani dell’uomo. Dipende dalla sensibilità e dall’intelligenza umana gestire quello che si ha davanti. Nella musica aiutano, possono essere molto creative. Faccio sempre un esempio quando parlo con i ragazzi più giovani. L’avvento del campionatore ha rivoluzionato l’idea di fare musica, perché si potevano suonare i dischi degli altri. Questo ha fatto sì che tutti potessero comporre canzoni inedite, il che non vuol dire che fossero tutte di qualità, ma per le persone di qualità la possibilità di farle è stata una grande cosa. La tecnologia è uno strumento: meglio lo usiamo meglio stiamo.
Come nascono le canzoni per i Subsonica e i brani da solista nella sua testa?
Lavorare in un gruppo significa collaborare. La scrittura con i Subsonica raramente è stata quella di una persona sola che porta un pezzo fatto e finito. È successo pochissime volte, in maniera alternata tra noi tutti. Quello che facciamo è frutto di un momento di condivisione e naturalmente i Subsonica sono una sintesi delle nostre anime. Tant’è che singolarmente facciamo cose molto diverse ed è per questo che i Subsonica ci sono ancora e stanno per cominciare a elaborare insieme il disco del trentennale per l’anno prossimo.
È sempre più difficile essere soddisfatti di sé stessi man mano che il tempo avanza?
Dipende da come sei fatto. Suppongo che alcuni siano soddisfatti di come sono e si sentano al posto giusto. Io non mi ci sento ancora. Questo significa vivere un pochino più scomodi, sempre sullo strapuntino, e cercare di trovarsi e ritrovarsi, che sia in una casa, in una canzone o in una relazione, di qualsiasi tipo. Però è anche vero che probabilmente sentire di non essere ancora al proprio posto innesta una ricerca, che nella musica si traduce nel fatto di avere voglia di farne sempre e ancora e ancora di diversa. Sapendo però che quando faccio un disco e lo porto in tour ho bisogno e ho il desiderio che la gente lo ascolti e poi venga a vedermi comprando il biglietto. Mi fa piacere e mi dà una responsabilità verso le persone che mi hanno scelto e vengono ai concerti. I musicisti vivono di questo, perché la musica è un valore. Noi siamo abituati ad ascoltarla sempre, è libera, è dappertutto, e purtroppo in questa società se qualcosa è gratis molto spesso la identifichiamo come senza valore. Invece la musica è uno strumento potente ed è uno strumento che ha un grande valore.
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