Una nuova forma di violenza, più sottile e insieme più sguaiata, si è affacciata nel dibattito pubblico. È una violenza che passa attraverso video virali, account falsi, shitstorm, frasi buttate lì con sconcertante leggerezza: “Se vedi un ambientalista, mettilo sotto con la macchina”, “Io il diesel lo lascio acceso apposta”, “Più plastica per tutti”. Slogan aggressivi che non hanno nemmeno la pretesa di essere intelligenti. Anzi, ostentano con orgoglio la propria stupidità. Crescono, si diffondono, vengono rilanciati quasi come atti di coraggio culturale, come gesti di ribellione.
Non stiamo parlando solo di scettici del cambiamento climatico o di semplici negazionisti. Si tratta di un fenomeno nuovo: un’ostilità sistematica e teatrale verso l’ambientalismo, che diventa bersaglio di una campagna di ridicolizzazione e, in alcuni casi, di odio dichiarato. Una forma di anti-ambientalismo militante, orgoglioso, che si propone come trasgressivo, alternativo, perfino rivoluzionario.
Da dove viene questa nuova, virulenta ondata di anti-ambientalismo? Per ricostruire l’anatomia di questa nuova forma di violenza culturale dobbiamo partire da lontano, dall’altra parte dell’oceano.
Da qualche anno, negli Stati Uniti è diventata virale una tendenza chiamata Rolling Coal – letteralmente “carbone ambulante” -, dove i proprietari di enormi pick-up modificano deliberatamente i loro motori diesel per emettere nubi inquinanti. Colonne di fumo nero sparato in faccia a ciclisti, pedoni e automobilisti che guidano auto elettriche, e cioè contro chi osa rispettare l’ambiente. Questa idiozia viene poi filmata e condivisa sui social: principale spazio di incubazione di questo demenziale fermento anti-ambientalista.
Ma cosa può spingere una persona a spendere fino a 5.000 dollari per trasformare il proprio veicolo in una locomotiva a carbone? La risposta è tanto semplice quanto sconcertante: il piacere di inquinare. I fan del Rolling Coal considerano simili scelte un’affermazione della loro libertà individuale, una sfida ai movimenti ambientalisti e, in certi casi, persino un’affermazione politica.
Il Rolling Coal ha guadagnato popolarità con l’ascesa di Trump, in un contesto in cui il negazionismo climatico è diventato qualcosa di cui andare orgogliosi. Così come un’altra, tra le tante sottoculture di internet nate come reazione all’onda verde del veganismo e più in generale dell’attenzione all’ambiente: i “meat influencer”, l’ennesima assurdità diventata virale nel sottobosco di internet.
Il vangelo dei meat influencer è la regola del BBBE (beef, bacon, butter, eggs – manzo, bacon, burro, uova) che prevede solo grasso, proteine e feticismo per la carne, che deve essere rigorosamente mangiata cruda. Niente verdure, niente frutta, niente carboidrati. Unica dieta ammessa – dicono – per risvegliare il vero potere del maschio.
Il loro guru è Shawn Baker, chirurgo ortopedico e autore del bestseller Carnivore Diet, paladino anti-vegan, divulgatore di teorie pseudoscientifiche e influencer da mezzo milione di follower.
Ma cosa spinge alcune persone ad aggredire chi si occupa di ambiente? Sicuramente in gioco c’è il meccanismo psichico della rimozione. L’enormità della crisi climatica genera un’ansia collettiva e, come spesso accade di fronte all’angoscia, la mente umana reagisce con un meccanismo antico: la rimozione. Se qualcosa ci turba troppo, lo neghiamo. E se non riusciamo a negarlo del tutto, allora cerchiamo di sminuirlo. L’ambientalista, in questo senso, diventa il simbolo della cattiva notizia. Non è odiato per ciò che dice, ma per ciò che rappresenta: il limite, il cambiamento necessario, la rinuncia al consumo illimitato.
L’odio contro l’ambientalismo è un sintomo. Come tutti i sintomi, va letto, non solo condannato. Dice che qualcosa è stato rimosso, qualcosa non è stato spiegato, qualcosa è stato percepito come ostile. Ma dice che serve anche una nuova grammatica della narrazione ambientale. Le buone ragioni non servono se non abbiamo le parole giuste per raccontarle.
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