Diagnosi precoce, terapie mirate e un lavoro multidisciplinare sono la chiave per contrastare una patologia legata all’età e troppo spesso sottovalutata
L’amiloidosi cardiaca è una malattia progressiva che colpisce il cuore, ma spesso viene diagnosticata tardi, quando i sintomi sono già avanzati. A renderla insidiosa è il fatto che i segnali iniziali sono sfumati e facilmente confondibili con quelli di altre patologie più comuni, in particolare tra gli anziani. Sono proprio loro, indistintamente uomini e donne, a sperimentare i sintomi della malattia, troppo spesso occulti e insidiosi. Ecco perché secondo gli esperti, una maggiore consapevolezza tra i medici e diagnosi più tempestive potrebbero cambiare radicalmente il decorso della malattia.
Cos’è l’amiloidosi cardiaca
L’amiloidosi cardiaca è causata dall’accumulo di proteine mal ripiegate – in particolare la transtiretina – che si depositano nei tessuti del cuore, rendendolo via via meno efficiente. Le forme più diffuse sono due: la amiloidosi da transtiretina, che può essere ereditaria o legata all’età, e quella da catene leggere, più rara e con origini legate al midollo osseo. Secondo i dati disponibili, si può classificare come una patologia rara – si stimano meno di cinque casi ogni 10.000 persone – ma non per questo trascurabile. Il problema è che spesso resta a lungo non riconosciuta, e il trattamento viene avviato quando ormai le condizioni del paziente sono compromesse.
I sintomi da non ignorare
La difficoltà principale sta, infatti, proprio nell’individuare la malattia. I sintomi dell’amiloidosi cardiaca possono restare silenti per mesi, talvolta anni, o essere scambiati per segnali di altre patologie. Come spiega la dottoressa Samuela Carigi, cardiologa presso l’Ospedale Infermi di Rimini, “molti pazienti arrivano alla diagnosi dopo lunghi periodi in cui i disturbi sono stati sottovalutati o mal interpretati”. Nei soggetti con scompenso cardiaco a frazione di eiezione conservata, in particolare uomini sopra i 65 anni, l’ipotesi dell’amiloidosi cardiaca dovrebbe essere considerata con maggiore frequenza. Altri segnali che possono far scattare un campanello d’allarme sono la sindrome del tunnel carpale bilaterale, la neuropatia periferica, la proteinuria e l’ipotensione ortostatica. Quando questi sintomi si accompagnano a segni di cardiomiopatia, è necessario procedere con approfondimenti specifici.
Strumenti diagnostici sempre più precisi
Uno degli aspetti positivi è che oggi esistono strumenti diagnostici non invasivi e sempre più affidabili. Tra questi, la scintigrafia ossea, il dosaggio di biomarcatori e la risonanza magnetica cardiaca sono in grado di fornire indicazioni rapide e dettagliate. Nella maggior parte dei casi, è possibile evitare la biopsia, riservandola solo alle situazioni più incerte. La maggiore disponibilità di queste tecnologie sta già portando a un aumento delle diagnosi. Tuttavia, come evidenzia Giovanni Palladini, direttore del Centro Amiloidosi sistemiche del Policlinico San Matteo di Pavia, “la sfida principale è clinica: saper sospettare la malattia nei giusti contesti”. Questo richiede una formazione adeguata, ma anche un lavoro di squadra tra diversi specialisti, dai cardiologi ai neurologi, dagli internisti ai medici di base.
L’approccio multidisciplinare
Per migliorare l’identificazione dell’amiloidosi cardiaca, è fondamentale costruire una rete di collaborazione tra le diverse figure sanitarie. Solo attraverso un approccio multidisciplinare si può arrivare a una diagnosi tempestiva e a un piano terapeutico personalizzato, evitando che il paziente venga rimbalzato da uno specialista all’altro senza ottenere risposte chiare. “L’allerta clinica deve essere condivisa e coltivata”, sottolinea Palladini. È necessario che gli operatori sanitari imparino a riconoscere i cosiddetti red flags della patologia, ovvero quei segnali precoci che, se letti correttamente, permettono di intervenire quando ancora si può fare molto per rallentare la malattia.
Nuove terapie all’orizzonte, ma la tempestività è tutto
Una delle novità più promettenti nella cura dell’amiloidosi cardiaca è l’arrivo del farmaco acoramidis, che ha mostrato risultati molto positivi nei trial clinici. Questa molecola agisce stabilizzando la transtiretina e riducendo in modo significativo il rischio di morte o di ricoveri ripetuti. Secondo gli studi, dopo tre mesi di trattamento, acoramidis riduce del 42% il rischio di mortalità per tutte le cause e del 50% il rischio annuale di ospedalizzazioni. “Il farmaco determina una stabilizzazione della transtiretina fino al 95%”, afferma Carigi, “ma per ottenere i migliori risultati è fondamentale intervenire precocemente”. La terapia dunque funziona, ma solo se la malattia viene riconosciuta in tempo.
Amiloidosi cardiaca, non così rara: i numeri che cambiano la prospettiva
Un recente studio italiano pubblicato sull’European Journal of Heart Failure dimostra che la malattia può essere più comune di quanto si pensi. Analizzando il campione, si scopre che l’1% delle persone sottoposte a scintigrafia ossea per motivi non cardiaci presentava segni della patologia. La percentuale sale al 12% tra chi soffre di insufficienza cardiaca pur avendo una normale funzione di pompa del cuore, e al 10% tra chi ha una funzione cardiaca ridotta. Anche in situazioni meno direttamente collegate al cuore sono emerse percentuali significative: il 2% dei pazienti a cui viene impiantato un pacemaker, il 7% di chi è operato per la sindrome del tunnel carpale e un altro 7% tra chi presenta cardiomiopatia ipertrofica. Anche l’8% dei soggetti con stenosi aortica grave è risultato affetto dalla malattia.
L’amiloidosi cardiaca colpisce soprattutto gli anziani, ma non è solo una malattia da uomini
Sempre dallo studio arriva la conferma che si tratti di una patologia strettamente legata all’età. Nei casi analizzati, infatti, l’età media dei pazienti variava dai 74 ai 90 anni e la probabilità di sviluppare la patologia aumentava con il trascorrere del tempo. La percentuale di uomini affetti era molto alta in alcuni gruppi, arrivando al 100% nei pazienti con scompenso cardiaco e funzione di pompa del cuore ridotta. Tuttavia, in altri contesti, la presenza femminile era tutt’altro che trascurabile. Le donne rappresentavano infatti il 27% dei pazienti con insufficienza cardiaca a funzione conservata e il 36% di coloro sottoposti a intervento per sindrome del tunnel carpale. Anche tra le persone con stenosi aortica grave, un terzo dei pazienti affetti da amiloidosi cardiaca era donna.
TUTTE LE ULTIME NOTIZIE SU SPAZIO50.ORG
© Riproduzione riservata