L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da tempo stabilito questa correlazione: minor isolamento sociale corrisponde a una migliore salute fisica e mentale, soprattutto in età avanzata. La perdita di autonomia, la separazione dai propri legami affettivi, la riduzione delle opportunità sociali e ambienti di vita non adatti alle esigenze in trasformazione conducono inevitabilmente ad un’accelerazione del deperimento psicofisico delle persone. Spesso, con l’età, quello che si svuota sono proprio le case: le nuove generazioni si trasferiscono, talvolta si rimane senza il compagno o la compagna di una vita, le occasioni di uscita e socializzazione si diradano, la vita del quartiere diventa sempre meno comunitaria. D’altro canto, proprio la casa è una dimensione a cui si è giustamente legati per la propria autonomia, una dimensione la cui rinuncia comporta spesso tensioni in famiglia e un dolore individuale difficilmente rimediabile. Proprio la casa rischia però di diventare per molte persone una prigione di solitudine. Ecco allora che diventa estremamente interessante valutare forme di convivenza o co-abitazione che in questi anni si stanno diffondendo nel paese. Da Trento a Napoli, passando da Lucca e Roma, come 50&Più abbiamo ascoltato le voci di chi vive in abitazioni condivise, le voci degli amministratori locali che hanno gli strumenti utili a promuovere soluzioni abitative in condivisione e le voci di chi lavora per rendere tutto questo possibile, tra pareri tecnici e scientifici. Roberto, 68 anni, vive in una struttura comunale di cohousing a Roma, ha detto: «Per me che ho perso tutti, venire a vivere qui è stato come tornare alle origini»; Maria Carla, di Lucca, è stata ancora più esplicita: «Con il cohousing la solitudine è stata sconfitta». Le loro testimonianze e quelle di tanti altri – che trovate nel ‘Primo piano’ di questo numero – diventeranno parte di un progetto più ampio che come 50&Più presenteremo nei prossimi mesi. Sappiamo bene che non ci sono bacchette magiche e la solitudine è un tema che non tocca solo le generazioni più anziane: è una malattia sociale insidiosa che sta dilagando anche tra i più giovani, inghiottiti dal digitale o, quelli più grandi, incapaci di costruire una famiglia e trovare una comunità in cui riconoscersi. Il cohousing non è quindi l’unica soluzione, ma non è nemmeno solo un modello abitativo: è piuttosto un investimento nel benessere collettivo che può migliorare la vita individuale. “Abitare” infatti ha la stessa radice di “abito”, quello che indossiamo, e anche di “abitudine”, quello che facciamo regolarmente: come, dove e con chi abitiamo dunque modifica profondamente le nostre abitudini e le nostre abitudini possono cambiare “quello che ci portiamo addosso”, che non sono i vestiti, ma la nostra salute, la nostra identità e la nostra felicità.
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